PIAZZA GRANDE di Nicola Signorile | 26_09_2012\

Il progetto non realizzato per il centro direzionale di Poggiofranco

Grande e invisibile la strategia dell’architettura _ Il mezzo secolo di Onofrio Mangini

«Nel 1954 partecipai ad un concorso per la sistemazione della piazza del Ferrarese con una proposta, forse troppo incisiva, pur gratificata con un secondo premio». Il progetto prevedeva la demolizione del Margherita e la sua ricostruzione come teatro moderno insieme alla edificazione di un grattacielo lì dove c’era e c’è tuttora il palazzo del mercato del pesce. L’architetto Onofrio Mangini oggi la definisce una idea «forse troppo incisiva», ma non la rinnega. Semmai continua a stupirsi che allora avesse riscosso tanto successo,  anche se in realtà rispondeva esattamente alle previsioni del piano regolatore di Piacentini e Calza Bini ancora fresco di stampa.
L’obiettivo principale era di ripristinare il mare aperto come fondale del corso Vittorio Emanuele II, ma il teatro Margherita non veniva per questo motivo semplicemente demolito: Mangini prevedeva di ricostruirlo, sempre galleggiante sul mare, ma spostato di poco verso nord, all’ombra del nuovo grattacielo e a forma di gigantesca conchiglia con le valve semiaperte, il cui prospetto fa pensare con sorpresa a quello del Teatro degli Arcimboldi di Milano, pensato molti decenni dopo da Vittorio Gregotti.

L’idea di un grattacielo (condivisa da altri partecipanti a quel concorso) sembra agli antipodi dell’idea, recentissima e dello stesso Mangini, di un porto turistico «invisibile» sul medesimo panorama del porto vecchio, davanti a Santa Scolastica. Ma è solo una impressione prodotta dalla distanza di un mezzo secolo che separa un progetto dall’altro. Quel mezzo secolo di professione per il quale Onofrio Mangini, sabato scorso, è stato festeggiato dall’Ordine degli architetti di Bari insieme ai colleghi Franco Martino, Giovanni Paradiso, Carlo Garnier e Camilla Agnelli, anch’essi giunti all’invidiabile traguardo professionale. E invece, oltre la scorza del tempo, bisogna riconosce che una  strategia dell’invisibile era presente già allora, in quel progetto giovanile.

Laureato a Roma nel ’51, all’epoca del concorso per piazza del Ferrarese non aveva ancora trent’anni, Mangini mostra qual è la sua intenzione progettuale e a quale cultura del costruire aderirà negli anni successivi. La cultura del «Dopo Otterlo», cioè l’ultimo Ciam (il Congresso internazionale dell’architettura moderna) che nel ’59 segnò la fine del pensiero unico del Modernismo, con lo scisma degli eretici italiani. Mangini – controcorrente – guarda al Le Corbusier autocritico della cappella di Ronchamp e del convento della Tourette: ne sono testimonianza alcuni dettagli della clinica Santa Maria (1963), il collegio dei padri Comboniani in via Giulio Petroni (1969) e il progetto di ville in contrada Santa Caterina a Mola (1970). Ma soprattutto guarda al Brasile nuovo di Oscar Niemeyer e di Lucio Costa. Nella Bari che si espande, Mangini vede riflessi scorci di Brasilia, città di fondazione.

Le visioni concretamente utopiche di Niemeyer ci aiutano a comprendere la necessità urbana della chiesa di Maria Maddalena a Carrassi (1969) e le sue analogie con la cattedrale di Nossa Senhora Aparecida (1960-’70). E a leggere i progetti non realizzati, come quello per una chiesa a Altamura (1961) e quello – impressionante – del centro direzionale di Poggiofranco (1975), nell’ambito del piano di zona Peep (1969) firmato dallo stesso Mangini con l’ingegner Angelo Baldassarre e l’architetto Aldo Amoruso Manzari. Piano in parte realizzato, tranne appunto l’area direzionale che avrebbe dovuto conferire al quartiere il senso e il ruolo di nuovo centro urbano con uffici e residenze ma soprattutto con i servizi e gli spazi e i luoghi pubblici: l’agorà, il palazzetto dello sport sormontato da una cupola geodetica, un albergo e il grande teatro. Cosa impedì al progetto di decollare? «In parte la difficoltà di procedere agli espropri – spiega Mangini – ma soprattutto la complessità di un progetto che richiedeva un impegno economico notevole ed infine ai tempi forse non ancora maturi».

L’anticipo sui tempi di Bari è un tratto ricorrente dell’architettura di Mangini ed è ciò che ne ha fatto – insieme alla rara sua eleganza – una figura singolare, autonoma dalle mode, indipendente dai condizionamenti del mercato
immobiliare, quando diventano insopportabili. Ma forse questo è un lusso che non tutti gli architetti sono disposti a concedersi.

NICOLA SIGNORILE

PIAZZA GRANDE di Nicola Signorile | 19_09_2012

La Sagrada Familia di Barcellona

Estasi o lentezza, giovani in cerca di un altro futuro _ Architetti, fra premi e festival

Architettura dappertutto e in ogni salsa, questa settimana a Bari. Ieri si è svolta la cerimonia di consegna dei Premi Apulia, all’architetto Gianclaudio Caponio nella sezione dei giovani (under 40) con la sede della Lamonica Elettromeccanica che ha realizzato a Santeramo e a Monica Villani (sezione
committenti privati) per la casa che l’architetto Antonella Mari ha tirato su per la sua famiglia nel centro storico di Polignano.

Domani si apre la lunga e densa kermesse di «Pugliarch», il festival ideato e organizzato dal Gab (il gruppo dei Giovani architetti della provincia di Bari). Quasi novanta appuntamenti di ogni genere. Ad aprire le danze – nel castello normanno-svevo – sarà l’architetto e urbanista catalano Oriol Bohigas che, forse senza volerlo e anzi contro le sue stesse aspettative, incarna l’architettura della lentezza pugliese, considerando gli anni e i travagli che ha accumulato la realizzazione del suo progetto per il waterfront di Mola: il primo, minuscolo pezzetto è stato realizzato a distanza di dieci anni dall’approvazione del Piano Urban. Né a Bari le cose vanno più spedite: il piano di lottizzazione del Tondo di Carbonara firmato da Bohigas è stato approvato solo la primavera scorsa, dopo tre anni dalla sua presentazione. Ma il caso vuole che sia proprio lui ad aprire il festival dedicato al tema della Slow architecture, della architettura, appunto, della lentezza. Gli organizzatori spiegano che la Puglia «per le sue caratteristiche di paesaggio e le sue bellezze architettoniche, rappresenta indubbiamente il luogo migliore dove recuperare la lentezza, inteso come un momento di riflessione sulla qualità e la messa a punto di pratiche per il suo recupero».

Il festival vuol essere un momento critico di riflessione sui temi dell’architettura e «un invito ai progettisti a lavorare in maniera tale da inserire nei “condizionamenti fast” dei committenti, a cui sempre più spesso siamo sottoposti, “scelte slow”, ovvero elementi di riflessione che partano da nozioni minime formali e storiche di architettura e territorio in cui si interviene come acquisizione della tradizione (formale e costruttiva), per poi realizzare nuove architetture che si misurino con la contemporaneità». Queste ultime parole sono rivelatrici di una irresistibile tensione al passato. Il modello è la cattedrale che si costruiva nell’arco non di anni, ma di secoli. Modello oggi improponbile e che tuttavia suggerisce «la necessità di rallentare il processo produttivo non necessariamente in termini temporali ma piuttosto qualitativi».

L’invito alla lentezza è tanto affascinante quanto subdolo perché evoca simpatiche teorie economiche di decrescita e pratiche antiglobaliste da kilometro zero. Il successo interazionale dello slow food, già alla fine degli anni Ottanta aveva fatto pensare alla nascita di un più generale movimento slow che non c’è stato. Non è questo il luogo per indagare le ragioni di tale assenza, ma almeno conviene soffermarsi a notare come l’ideologia slow trascini con sé un grumo di contraddizioni. Da una parte l’inderogabile necessità di introdurre forme e modi di partecipazione popolare che non possono non rallentare le procedure decisionali nella trasformazione della città, salvandola da derive antidemocratiche. Dall’altra il ritorno di certe anticaglie come l’autorialità.

La figura dell’architetto-artista, solitario nella sua creazione, era stata spazzata via dal movimento moderno ma non è un caso che Antoni Gaudì con la sua incompiuta Sagrada Familia a Barcellona sia un modello dell’architetto slow che sogna la cattedrale infinita. La mitologia antimoderna che nutre questo sogno è come un fiume carsico ed emerge qui e là. E sembra ogni volta di riascoltare le parole di Milan Kundera quando racconta, nel suo Elogio della lentezza (1995), dell’uomo curvo sulla sua motocicletta «tutto concentrato sull’attimo presente del suo volo; egli si aggrappa ad un frammento di tempo scisso dal passato come dal futuro; si è sottratto alla continuità del tempo; è fuori del tempo; in altre parole, è in uno stato di estasi; in tale stato non sa niente della sua età, niente di sua moglie, niente dei suoi figli, niente dei suoi guai, e di conseguenza non ha paura, poiché l’origine della paura è nel futuro, e chi si è affrancato dal futuro non ha più nulla da temere. La velocità è la forma di estasi che la rivoluzione tecnologica ha regalato all’uomo».

Ben altre paure nutre invece il passato.

 NICOLA SIGNORILE

Premio Apulia 2011 _ Presentazione e premiazione dei progetti vincitori

Il progetto vincitore della sezione committenza privata (Casa Petrini-Villani a Polignano, progetto di Antonella Mari)

Domani, Martedì 18 agosto2012,  si terrà la giornata di presentazione e premiazione dei progetti vincitori della prima edizione del Premio Apulia per le opere di architettura e urbanistica.

La giornata di premiazione avrà luogo a partire dalle ore 9.30  presso l’ex Palazzo delle Poste (P.zza Cesare  Battisti, Bari) e vedrà la partecipazione del Presidente della regione Puglia On. Nichi Vendola e dell’assessore regionale all’Assetto del Territorio Angela Barbanente.

L’assessore Angela Barbanente introdurrà e coordinerà la giornata. Il Premio, istituito dalla legge regionale 14/2008, è annuale e si articola in due sezioni riservate rispettivamente a giovani progettisti under 40 e alla commitenza privata.
L’iniziativa sarà occasione per tracciare un profilo dell’architettura contemporanea in Puglia grazie agli interventi di profondi conoscitori dell’architettura e dell’urbanistica pugliesi e di progettisti che ad essa hanno significativamente contribuito. La sessione del pomeriggio darà anche conto degli strumenti legislativi che la Regione Puglia e il Ministero dei Beni Culturali hanno messo in campo per perseguire la qualità in architettura e ospiterà un forum sulle sfide che i giovani progettisti pugliesi sono chiamati ad affrontare. I progetti premiati sono stati raccolti nel volume ” Premio Apulia 2011 / 11 progetti di architettura realizzati in Puglia” (a cura di Michele Cera, progetto grafico di Ivan Abbattista, edito da Libria), che sarà presentato nel corso dell’evento.

Conversion+ _ Tavola rotonda

Oggi Venerdì 7 Settembre 2012, in occasione dell’evento Conversion+, avrà luogo una tavola rotonda alle ore 19 presso il chiostro di San Benedetto a Conversano con Beniamino Servino, Andrea Masu e Elisa Poli sul tema dell’abbandono. 

 

 

 

Per informazioni su Conversion+: https://www.facebook.com/evento.conversion

Per informazioni sulla tavola rotonda: https://www.facebook.com/events/104479983038731/

Indietro non si torna.

Giovanni Battista Lusieri, Veduta di Roma da Monte Mario, 1780

L’istantanea che i dati dell’ultimo censimento Istat restituiscono è a dir poco allarmante. In Italia siamo di fronte ad una situazione curiosissima. La popolazione italiana al 1^ gennaio 2011 è di 60.626.442 abitanti (dati censimento ISTAT 2011). Siamo il quarto Paese dell’Unione Europea per popolazione (dopo  Germania, Francia e Regno Unito). Abbiamo un tasso di natalità del 9,1‰ a fronte di un tasso di mortalità del 9,7‰. Il nostro paese non cresce demograficamente, addirittura decrescerebbe se non ci fossero gli immigrati. Negli ultimi anni, infatti, solo gli immigrati garantiscono un tasso di crescita della popolazione intorno allo 0,4%, uno dei più bassi del mondo, il più basso d’Europa. Malgrado ciò abbiamo il più alto tasso di consumo del suolo d’Europa.

Non cresciamo ma continuiamo a costruire. Secondo i dati provvisori del VI Censimento generale dell’agricoltura la superficie agricola utilizzata (SAU) è diminuita nel decennio compreso tra il 2000 e il 2010 del 2,3% attestandosi sui 12.885.186 ettari a fronte dei 13.183.407 ettari del 2000.

La situazione allarmante è descritta mirabilmente nel dossier dal titolo emblematico “Terra Rubata _ Viaggio nell’Italia che scompare” che FAI (Fondo Ambiente Italiano) e WWF hanno redatto congiuntamente nella speranza che i dati possano aiutare anche i nostri miopi amministratori a cogliere la gravità del panorama. Nel dossier si evidenzia come, per il solo campione di Regioni analizzate (Abruzzo, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Marche, Molise, Puglia, Sardegna, Umbria e Valle d’Aosta), la proiezione dei dati mostri una “superficie media di conversione giornaliera pari ad oltre 75 ettari/giorno, il che porta ad uno scenario di circa 600.000 ettari di superfici impermeabilizzate nei prossimi vent’anni”. 

Il quadro illustrato può essere meglio interpretato se si pensa che la maggioranza dei comuni delle regioni del sud è priva di strumenti di pianificazione generale aggiornati dopo il 1995, come messo in evidenza dall’ultimo Rapporto dal Territorio pubblicato dall’INU (Istituto Nazionale di Urbanistica) nel 2007 e se si tiene conto dei fenomeni di abusivismo edilizio. Per averne un’idea basti pensare che in Italia si sono registrati tre condoni edilizi (1985, 1994 e 2003) che hanno generato 4.600.000 abusi accertati per una media di 75.400 abusi per anno.

Non solo: il business del cemento, del quale siamo i primi produttori in Europa (come si legge a pag. 75 de Le conseguenze del cemento, Luca Martinelli, Altreconomia, 2011), alimenta anche la diffusione delle cave di calcare che contribuiscono a ferire ulteriormente il paesaggio e contribuiscono a dequalificare quello che un tempo, a ragione, era considerato “il giardino d’Europa”, una delle mete fondamentali del “Grand Tour” (il lungo viaggio di formazione che i giovani aristocratici europei svolgevano nell’Europa del XVII secolo).

Il tutto è accettato, se non addirittura avallato ed incentivato, da miopi politiche economiche che hanno sottratto fondi agli enti locali costringendo i Comuni a recuperare gran parte delle risorse necessarie mediante imposte (l’ICI prima e l’IMU ora, gli oneri di urbanizzazione e costruzione) commisurate ai volumi edificati.

E di fronte alla prospettiva del guadagno e della speculazione non c’è distinzione di appartenenza politica; “in Italia si è formato un partito unico, trasversale, che va da sinistra a destra. Uno schieramento che governa ogni genere di attività, dall’edilizia alla Sanità (…) la Santa Alleanza tra il sistema politico, quello finanziario e gli imprenditori del mattone” (Marco Preve, Ferruccio Sansa, Il partito del cemento, Chiarelettere, 2008). E solo tenendo a mente questa affermazione e la collusione tra i vari operatori si possono motivare spericolate operazioni di cambio di destinazione d’uso di aree agricole e di suoli inedificabili in aree a vocazione edificatoria; come spiega Franco Ferroni, responsabile biodiversità del WWF Italia: “Gli interessi dei grandi costruttori sono molto spesso coincidenti con quelli fondiari, chi costruisce case da tempo compra le terre su cui edificare e non sempre le comprano con l’edificabilità già sancita nei piani regolatori. Il guadagno in questo caso si moltiplica, e di molto”.

Si può continuare a costruire in questo modo? Ritenere che investire nel mattone sia l’unica forma d’investimento sicuro, che il principale motore dello sviluppo economico sia l’edilizia, potrebbe rivelarsi, come già sta accadendo, un errore fatale. “Il paesaggio non è una miniera da sfruttare, è un bene comune, (…) è un capitale naturale” – come sostiene Salvatore Settis – e, come ogni capitale, può essere sfruttato in positivo (incrementandolo) o in negativo (sottraendo capitale alle generazioni future). Per quanto si possa credere nel paradosso della crescita illimitata, le risorse non rinnovabili – e il territorio lo è – non sono sfruttabili all’infinito, sono destinate all’esaurimento.  L’eccessivo consumo di suolo non provoca solo danni visivi: oltre a stuprare la bellezza del paesaggio, cancellandone in alcuni casi anche la memoria collettiva, la colata di cemento e asfalto che sta sommergendo l’Italia ha ricadute significative sul clima, sulla biodiversità, sull’economia e, soprattutto, sull’assetto idrogeologico.

E’ necessario costruire ancora? Sembrerebbe di no! in Italia, si stima – non ci sono statistiche ufficiali (assurdo anche questo) – ci siano 2 milioni di appartamenti invenduti costruiti negli ultimi 10 anni e numerosi edifici abbandonati. E allora perchè non incentivare politiche di recupero, riuso e  riqualificazione dell’esistente, ad esempio, contemplando nei redigendi regolamenti edilizi norme che prevedano l’impossibilità del rilascio di nuovi permessi di costruire fin quando non siano stati recuperati almeno una buona parte di questi edifici?

Soprattutto in periodi di crisi come quello che attualmente stiamo attraversando un’intelligente e accorta politica economica dovrebbe mirare alla valorizzazione delle proprie risorse e il paesaggio, non v’è dubbio, è certamente la migliore risorsa che l’Italia abbia a sua disposizione. Continuare ad eroderlo, cementificando ed impermeabilizzandone larga parte, è un crimine che non possiamo permetterci perché la cementificazione è un’operazione irreversibile. Se cementificato, un suolo perde fertilità , smette per sempre di produrre cibo, bellezza, cultura. E poi, indietro non si torna.

                                                                                                                                                                                                        PASQUALE PULITO