Il superospedale moltiplica strade e divora il suolo _ Monopoli, protesta di Fai e Italia Nostra
Il nuovo ospedale da costruire a Lamalunga, contrada di Monopoli, non va giù a due delle più importanti associazioni impegnate nella difesa del paesaggio. L’archeologa Raffaella Cassano e l’urbanista Dino Borri hanno firmato rispettivamente per Italia Nostra e per il Fai una lettera aperta al presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, per chiedere che sia ripensata la scelta del luogo.
Guerra e pace ma al progresso serve tempo _ La casa del mutilato di Pietro Favia
Se non fosse stato per la forma scomodissima di quel lotto, una spina acuminata che si infila tra il palazzo delle Finanze e gli uffici centrali dell’Anagrafe, la Casa del Mutilato non sarebbe mai stata una tappa – domenica scorsa – della Maratona del Fai (il Fondo per l’ambiente italiano). Perché è proprio la pianta, un accentuato triangolo isoscele, a condizionare le scelte dell’architetto Pietro Maria Favia, ad averlo condotto a sperimentare una ardita soluzione d’angolo nella quale sembra scomparire l’intero edificio con la sua mole o per lo meno ridursi ad un cilindro apparentemente vuoto, scandito da quattro pilastri.
Le invasive biglietterie di Piazza Cesare Battisti
Una spericolata inversione di marcia nel Murattiano _ Oggi nuovo incontro sul vincolo
Se fosse stato già approvato il vincolo paesaggistico sui quartieri storici di Bari, quel lugubre lapidarium che è ora piazza Cesare Battisti non sarebbe mai stato realizzato. Né probabilmente il parcheggio interrato. Eppure la Soprintendenza ai Beni architettonici, che oggi propone il vincolo, all’epoca approvò il progetto del project financing che prevedeva la distruzione del giardino ottocentesco, nonostante le proteste popolari.
Cosa è successo? Perché la Soprintendenza ha cambiato idea? Più che di un cambio di rotta, di una inversione ad U si tratta: al paragrafo 2.2.3 della «Proposta di dichiarazione di notevole interesse pubblico dell’area centrale di Bari» (pp. 13 e 14) si legge infatti che: «la riqualificazione e la valorizzazione delle aree verdi, piazze, giardini e aiuole deve essere improntata alla salvaguardia della vegetazione esistente (…) conservando l’impianto delle specie arboree».
La realizzazione dei parcheggi interrati non è esclusa, ma «senza compromettere in alcun modo l’esistenza di alcuna alberatura». Il che, come è noto, non è avvenuto in piazza Cesare Battisti, tanto che la Regione aveva imposto una compensazione di verde il cui costo l’impresa Dec si rifiuta di affrontare. E in ogni caso avrebbe dovuto essere «salvaguardato il disegno architettonico delle piazze» mentre «l’introduzione di strutture di servizio (chioschi, gazebo, dehors, pergolati elementi di arredo…)» avrebbe dovuto avere «il carattere della precarietà e provvisorietà». Ma le invasive biglietterie del parking, nella loro solida fisicità da villetta, non hanno certo un carattere precario.
In anticipo di qualche giorno sulla apertura ufficiale della procedura di «inchiesta pubblica», prevista dalla Regione Puglia, oggi pomeriggio si torna a discutere della proposta, attivata dalla Soprintendenza e condivisa dal Comune di Bari (con successiva dissociazione, ma senza resipiscenza). L’iniziativa è dell’associazione Italia Nostra insieme agli ordini degli ingegneri e degli architetti e al Fai. All’incontro, nel Castello normanno-svevo, parteciperà fra gli altri il soprintendente Salvatore Buonomo. Com’è largamente prevedibile, a catalizzare la discussione sarà il vincolo proposto per tutti gli immobili sorti prima del 1942: dalle prescrizioni sugli infissi all’obbligo di ricostruire tal quale ogni edificio demolito a Murat, come a Libertà e Madonnella, per non dir di Bari vecchia.
Tuttavia, sarebbe sufficiente avere a mente ciò che è avvenuto in piazza Cesare Battisti per capire che la proposta di vincolo non è solo una minaccia al futuro dell’edilizia (come lamentano gli imprenditori) perché «ingessa il patrimonio immobiliare privato», ma anche un passo avanti rispetto alla consapevolezza del valore civile degli spazi pubblici, senza dover agitare i fantasmi di un Murattiano largamente perduto. La maturazione del senso comune forse oggi avrebbe portato i progettisti del parcheggio interrato a fare scelte diverse perché decisioni di questo genere – che si giocano sul terreno del paesaggio – sono sempre il risultato dei rapporti di forza tra potere pubblico e interessi privati. Ma possiamo dire che, a un decennio di distanza, i rapporti di forza siano mutati? Per un indizio positivo (i Programmi di riqualificazione delle periferie, per esempio) ce n’è almeno uno negativo (le case per i poliziotti, per esempio). E il saldo è sempre negativo.
Il giurista Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte costituzionale, è intervenuto di recente sul tema dei beni culturali, della tutela stabilita dalla legge fondamentale della Repubblica, e della loro «valorizzazione», come vuole la novità introdotta a partire dal 2001 nella Costituzione. «Lo sfruttamento eccessivo – dice Flick – della potenzialità economica del bene culturale, l’attenuazione o la scomparsa del vincolo di alienazione o di indisponibilità; il procedimento di silenzio-assenso; la spinta ai condoni e alle sanatorie; l’indifferenza agli abusi edilizi, alle alterazioni estetiche del paesaggio e dei centri storici; la perdita del ruolo dello Stato: sono tutti indici del rischio di indebolimento, se non di disperdere una tradizione centenaria di prevalenza del bene pubblico sull’interesse privato. Occorre evitare una “controriforma” sbilanciata soltanto sull’efficienza e sulla logica di sfruttamento».
Ma la “controriforma” passa oggi innanzitutto attraverso la giustizia amministrativa, le sentenze dei Tar e le decisioni del Consiglio di Stato. Dove si disputa un impari duello tra i principi evocati da Flick e i diritti invocati dall’interesse privato
Giovanni Battista Lusieri, Veduta di Roma da Monte Mario, 1780
L’istantanea che i dati dell’ultimo censimento Istat restituiscono è a dir poco allarmante. In Italia siamo di fronte ad una situazione curiosissima. La popolazione italiana al 1^ gennaio 2011 è di 60.626.442 abitanti (dati censimento ISTAT 2011). Siamo il quarto Paese dell’Unione Europea per popolazione (dopo Germania, Francia e Regno Unito). Abbiamo un tasso di natalità del 9,1‰ a fronte di un tasso di mortalità del 9,7‰. Il nostro paese non cresce demograficamente, addirittura decrescerebbe se non ci fossero gli immigrati. Negli ultimi anni, infatti, solo gli immigrati garantiscono un tasso di crescita della popolazione intorno allo 0,4%, uno dei più bassi del mondo, il più basso d’Europa. Malgrado ciò abbiamo il più alto tasso di consumo del suolo d’Europa.
Non cresciamo ma continuiamo a costruire. Secondo i dati provvisori del VI Censimento generale dell’agricoltura la superficie agricola utilizzata (SAU) è diminuita nel decennio compreso tra il 2000 e il 2010 del 2,3% attestandosi sui 12.885.186 ettari a fronte dei 13.183.407 ettari del 2000.
La situazione allarmante è descritta mirabilmente nel dossier dal titolo emblematico “Terra Rubata _ Viaggio nell’Italia che scompare” che FAI (Fondo Ambiente Italiano) e WWF hanno redatto congiuntamente nella speranza che i dati possano aiutare anche i nostri miopi amministratori a cogliere la gravità del panorama. Nel dossier si evidenzia come, per il solo campione di Regioni analizzate (Abruzzo, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Marche, Molise, Puglia, Sardegna, Umbria e Valle d’Aosta), la proiezione dei dati mostri una “superficie media di conversione giornaliera pari ad oltre 75 ettari/giorno, il che porta ad uno scenario di circa 600.000 ettari di superfici impermeabilizzate nei prossimi vent’anni”.
Il quadro illustrato può essere meglio interpretato se si pensa che la maggioranza dei comuni delle regioni del sud è priva di strumenti di pianificazione generale aggiornati dopo il 1995, come messo in evidenza dall’ultimo Rapporto dal Territorio pubblicato dall’INU (Istituto Nazionale di Urbanistica) nel 2007 e se si tiene conto dei fenomeni di abusivismo edilizio. Per averne un’idea basti pensare che in Italia si sono registrati tre condoni edilizi (1985, 1994 e 2003) che hanno generato 4.600.000 abusi accertati per una media di 75.400 abusi per anno.
Non solo: il business del cemento, del quale siamo i primi produttori in Europa (come si legge a pag. 75 de Le conseguenze del cemento, Luca Martinelli, Altreconomia, 2011), alimenta anche la diffusione delle cave di calcare che contribuiscono a ferire ulteriormente il paesaggio e contribuiscono a dequalificare quello che un tempo, a ragione, era considerato “il giardino d’Europa”, una delle mete fondamentali del “Grand Tour” (il lungo viaggio di formazione che i giovani aristocratici europei svolgevano nell’Europa del XVII secolo).
Il tutto è accettato, se non addirittura avallato ed incentivato, da miopi politiche economiche che hanno sottratto fondi agli enti locali costringendo i Comuni a recuperare gran parte delle risorse necessarie mediante imposte (l’ICI prima e l’IMU ora, gli oneri di urbanizzazione e costruzione) commisurate ai volumi edificati.
E di fronte alla prospettiva del guadagno e della speculazione non c’è distinzione di appartenenza politica; “in Italia si è formato un partito unico, trasversale, che va da sinistra a destra. Uno schieramento che governa ogni genere di attività, dall’edilizia alla Sanità (…) la Santa Alleanza tra il sistema politico, quello finanziario e gli imprenditori del mattone” (Marco Preve, Ferruccio Sansa, Il partito del cemento, Chiarelettere, 2008). E solo tenendo a mente questa affermazione e la collusione tra i vari operatori si possono motivare spericolate operazioni di cambio di destinazione d’uso di aree agricole e di suoli inedificabili in aree a vocazione edificatoria; come spiega Franco Ferroni, responsabile biodiversità del WWF Italia: “Gli interessi dei grandi costruttori sono molto spesso coincidenti con quelli fondiari, chi costruisce case da tempo compra le terre su cui edificare e non sempre le comprano con l’edificabilità già sancita nei piani regolatori. Il guadagno in questo caso si moltiplica, e di molto”.
Si può continuare a costruire in questo modo? Ritenere che investire nel mattone sia l’unica forma d’investimento sicuro, che il principale motore dello sviluppo economico sia l’edilizia, potrebbe rivelarsi, come già sta accadendo, un errore fatale. “Il paesaggio non è una miniera da sfruttare, è un bene comune, (…) è un capitale naturale” – come sostiene Salvatore Settis – e, come ogni capitale, può essere sfruttato in positivo (incrementandolo) o in negativo (sottraendo capitale alle generazioni future). Per quanto si possa credere nel paradosso della crescita illimitata, le risorse non rinnovabili – e il territorio lo è – non sono sfruttabili all’infinito, sono destinate all’esaurimento. L’eccessivo consumo di suolo non provoca solo danni visivi: oltre a stuprare la bellezza del paesaggio, cancellandone in alcuni casi anche la memoria collettiva, la colata di cemento e asfalto che sta sommergendo l’Italia ha ricadute significative sul clima, sulla biodiversità, sull’economia e, soprattutto, sull’assetto idrogeologico.
E’ necessario costruire ancora? Sembrerebbe di no! in Italia, si stima – non ci sono statistiche ufficiali (assurdo anche questo) – ci siano 2 milioni di appartamenti invenduti costruiti negli ultimi 10 anni e numerosi edifici abbandonati. E allora perchè non incentivare politiche di recupero, riuso e riqualificazione dell’esistente, ad esempio, contemplando nei redigendi regolamenti edilizi norme che prevedano l’impossibilità del rilascio di nuovi permessi di costruire fin quando non siano stati recuperati almeno una buona parte di questi edifici?
Soprattutto in periodi di crisi come quello che attualmente stiamo attraversando un’intelligente e accorta politica economica dovrebbe mirare alla valorizzazione delle proprie risorse e il paesaggio, non v’è dubbio, è certamente la migliore risorsa che l’Italia abbia a sua disposizione. Continuare ad eroderlo, cementificando ed impermeabilizzandone larga parte, è un crimine che non possiamo permetterci perché la cementificazione è un’operazione irreversibile. Se cementificato, un suolo perde fertilità , smette per sempre di produrre cibo, bellezza, cultura. E poi, indietro non si torna.