PIAZZA GRANDE di Nicola Signorile | 11_01_2017

Leonardo Benevolo
Leonardo Benevolo

La fine della città è credere nella città infinita _ Benevolo: a dieta i piani urbanistici

Bari era una città cara a Leonardo Benevolo, l’architetto e urbanista scomparso il giorno dell’Epifania, all’età di 93 anni. Non che siano rimaste tracce del suo lavoro, qui, ma barese era la casa editrice che nel 1960 diede  alle stampe la sua «Storia dell’architettura moderna».  Fu Carlo Chiarini a consigliare Vito Laterza di pubblicare quello che sarebbe diventato un testo fondamentale per la cultura tecnica del Novecento. Un libro osteggiato dalle baronie accademiche, come il suo autore: in quello stesso anno Benevolo fu bocciato al concorso per professore ordinario. Vinse solo al quarto tentativo e prese la cattedra a Palermo ma nel ‘76 andò via dall’università, sbattendo la porta. Lui che si era laureato a Roma e che a 33 anni già insegnava nello stesso ateneo.

D’altra parte nemmeno sul fronte della professione i primi anni dopo la laurea furono facili: «Vivevamo di espedienti», ricorda a Francesco Erbani nel libro-intervista «La fine della città» pubblicato sempre da Laterza, nel 2011. «Una volta – racconta –  ad una riunione vedemmo arrivare Quaroni in Lambretta. Ricordo lo stupore, come se lui avesse raggiunto uno status inimmaginabile per la gran parte di noi. Ed era solo una Lambretta, che forse gli avevano comprato i genitori».

Ma Benevolo ha avuto poi una gran fortuna, per avere vissuto dall’interno la stagione irripetibile del «Piano casa» di Fanfani, della progettazione degli alloggi popolari affidata a giovani architetti, della magnifica utopia di Adriano Olivetti, della battaglia (persa) di Fiorentino Sullo per la riforma urbanistica. Soprattutto, è l’incontro con Luigi Bazoli, nel 1962, che segna la vita di Benevolo. Bazoli lo porta a Brescia per realizzare un piano urbanistico innovativo, ammirato da tutti: «Abbiamo vinto una battaglia condotta sul mercato e con le leggi di mercato (…) – spiega Benevolo –  nel piano regolatore abbiamo individuato due quantità identiche di terreni, una di proprietà pubblica e una privata, nelle quali sarebbe stato possibile costruire, dopo aver decurtato le gigantesche previsioni edificatorie del vecchio piano».

Ai maghetti dell’urbanistica contrattata oggi tanto in voga, ai tifosi dei crediti edilizi e dei presunti diritti acquisiti non sembrerà vero che si possano decurtare «le gigantesche previsioni edificatorie del vecchio piano». Ed è appunto quel che bisognerebbe fare a Bari, con il Pug, a fronte dei 15 milioni di metri cubi che «avanzano» dal piano Quaroni.

Anni dopo Benevolo esportò il modello di Brescia nella Palermo del sindaco Leoluca Orlando, ma la giunta cadde proprio mentre il piano regolatore andava in consiglio comunale. Tra successi e sconfitte, egli matura la convinzione che, a differenza della maggior parte dei Paesi avanzati, «in Italia esiste un predominio della componente privata nella trasformazione dei luoghi e un arretramento sia dell’urbanistica sia della politica». È in questo rapporto sbilanciato tra pubblico e privato che si realizza la crescita della città fuori di sé e contro se stessa, perché «l’espansione non può che rendere ulteriormente drammatici i problemi di mobilità di cui la città già soffre».

Il futuro della città è il «basso continuo» che intona quel libro del 2011, quasi un testamento spirituale di Benevolo. Titolo apocalittico – la fine della città –  che evoca i pronostici mancati della «fine della storia» (Fukuyama) e della «fine della modernità» (Lyotard), ma in questo caso aderente alla analisi concreta della realtà concreta. Sembra un paradosso linguistico: la fine della città è la città senza fine. Una città che, orfana della sua forma, divora la campagna. La situazione attuale – sostiene Benevolo nel libro – è più grave di quella degli anni Sessanta e Settanta, gli anni dell’abusivismo sfrenato ma contenuto ai margini della città edificata: oggi invece, «si procede all’infinito, senza rispettare il limite che è invece essenziale perché la città sia città». E dilaga una edilizia spesso nemmeno abusiva, ma legale e concordata tra ente pubblico e privati,  in deroga alle previsioni urbanistiche.

D’altra parte, sembra illusorio credere che la patologia che affligge la città possa essere curata dalle archistar. «Occorre recuperare – raccomanda Benevolo – il punto di equilibrio fra il controllo pubblico delle trasformazioni e la spontaneità dei singoli interventi: questo è il principio sul quale si è retta l’esperienza europea ed è anche il solo ideale di perfezione urbana a cui possiamo aspirare in una società democratica».

 

NICOLA SIGNORILE

(pubblicato oggi su “La Gazzetta del Mezzogiorno”)

 

 

 

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