PIAZZA GRANDE di Nicola Signorile | 05_12_2012

Palazzo in via Argiro 73 a Bari di Onofrio Mangini
Palazzo in via Argiro 73 a Bari di Onofrio Mangini

Cresce in città la voglia di essere Disneyland _ Murattiano, c’è odor di plastica

La prossima settimana si aprono ufficialmente le celebrazioni del bicentenario della fondazione del Borgo Murattiano e l’Amministrazione comunale ha chiamato per l’occasione un professore di Estetica a Mendrisio, Marco Romano, a parlare il 12 dicembre sul tema: La città di Bari come opera d’arte? L’idea, che sulle prime appare innocua ed ecumenica, in realtà è alquanto compromettente. Perché lascia intendere che una scelta di campo sia stata fatta e che ora un esercito di zombie, già posti in agguato, sia pronto a spargere sulla città una coltre spessa di melassa e a celebrare il buon tempo antico, ancorché di cartapesta.

Spieghiamoci. Marco Romano è l’autore di un pamphlet, pubblicato da Einaudi nel 2008 e intitolato, appunto, La città come opera d’arte. Il libricino, in cui si discute di periferie e di bellezza, si conclude con un programma politico: «Forse sarà venuto il tempo – scrive Romano – di riscattarci dal disastro di questo mezzo secolo – che sono mai cinquant’anni di débâcle in una vicenda antica di mille anni? – ricorrendo ancora una volta al linguaggio consolidato nei secoli, quello che costituisce la città in un’opera d’arte apprezzabile da tutti, e questo ritorno ci sembra necessario perché la sfera estetica della città è il mondo simbolico pregnante della cittadinanza e la cittadinanza è in Europa – come sosteneva Herder – il linguaggio stesso della propria città». Ma è Romano colui che sulla rivista «Urbanistica», nel 1981 aveva scritto: «La trasformazione di Venezia in una Disneyland potrebbe segnare il passaggio ad un modo di vivere più creativo, più allegro, è più festoso». A ricordarcelo è lo storico dell’arte Salvatore Settis che nel libro Paesaggio Costituzione Cemento, segnala come «il processo di disneyficazione dei centri storici era annunciato da tempo»  e che la nomina di Romano « a membro del Consiglio superiore dei Beni culturali (2009) indica che il trend è ormai vittorioso».

Dunque Romano sembra l’uomo giusto al posto giusto e al momento giusto, in una strategia di ricostruzione retorica del centro murattiano, nella cui direzione (e indipendentemente dalle buone intenzioni) va la proposta di vincolo sui quartieri centrali, al centro delle discussioni di queste settimane.  Al di là delle differenze di strategia tra Soprintendenza e Comune, quel che prevale è il sentimento di vendetta contro quell’ultimo mezzo secolo che Romano non riesce a mandar giù. Ciò che rimane è l’indifferenza rispetto al paradosso che si vuol produrre con questa operazione da chirurgo plastico: la cancellazione di qualsiasi traccia del secondo Novecento.
È  solo un caso – ma forse anche un indizio – che alle riunioni della commissione regionale per il vincolo paesaggistico sui quartieri centrali abbia partecipato anche l’architetto della Soprintendenza ai Beni architettonici, Emilia Pellegrino, che nel 1983 era tra gli autori di una mostra (e poi di un libro) dal titolo Bari 1950-1980. La guerra dei Trent’anni. Le distruzioni nel borgo murattiano. La sua denuncia degli effetti della «speculazione edilizia, supportata da un forte sistema bancario» che ha condotto alla sostituzione di gran parte del patrimonio immobiliare del centro murattiano non è attraversata da nessuna notazione critica, non c’è la benché minima distinzione tra la pessima edilizia (maggioritaria) e i casi di pregevole costruzione realizzati in quegli anni. Nella galleria fotografica che accompagna le parole di Pallegrino, anzi, sono proprio gli edifici migliori ad essere additati come il morbo che avrebbe sfigurato la città.

Fra i «cattivi» ci sono anche le opere di architettura più belle e importanti presenti nel centro murattiano dal dopoguerra ad oggi. C’è il palazzo Sylos Labini, in via Marchese di Montrone, progettato da Vito Sangirardi; c’è il palazzo Laterza in via Sparano, progettato da Lambertucci; c’è il palazzo Miceli di Chiaia e Napolitano in via Cairoli; c’è il palazzo realizzato in via Argiro 73 e progettato da Onofrio Mangini per la famiglia De Florio. La particolarità di questo edificio, stretto al centro di un isolato, è nella facciata «ripiegata» in spigoli e asimmetrica. Ed è senz’altro per questo motivo, riconoscendovi una delle sue invarianti del Moderno, che un giorno Bruno Zevi in visita a Bari si fermò ad applaudire. Ma abbiamo il sospetto che questi edifici non rientrino affatto nell’idea di «Bari città d’arte» che si va facendo strada.

NICOLA SIGNORILE

PIAZZA GRANDE di Nicola Signorile | 24_10_2012

Veduta aerea del Borgo Murattiano

Un fantasma perseguitato dall’identità _ Gimma e il vincolo del Murattiano 

Un fantasma si aggira per la città. È il fantasma di Gimma. Non l’abate, ma l’architetto del re, anzi dei re, dal momento  che Giuseppe Gimma lavorò ugualmente bene tanto con i monarchi borbonici che con il napoleonico Gioacchino Murat. Lo spettro non si dà pace: fra qualche mese scocca il bicentenario della sua grande impresa (la fondazione del Borgo) e già si sente odore di celebrazioni, con il prevedibile sovradosaggio di retorica. Che sprizza qui e là, anche dove non dovremmo aspettarcela. Per esempio, nelle carte che accompagnano l’atto con cui la Regione Puglia ha avviato il procedimento del vincolo paesaggistico su Bari vecchia e sui quartieri Murat, Libertà e Madonnella.

Per la prima volta un atto d’imperio quale è un vincolo viene accompagnato da una «inchiesta pubblica»: è un fatto importante e c’è da augurarsi che l’inchiesta si realizzi davvero e non sia soltanto un nome nuovo per una vecchia pratica che contrappone il potere pubblico agli interessi privati. È utile perciò che entri in gioco chi non ha altro interesse che non sia il bene comune, la qualità di quello spazio nel quale per fortuna o per sventura si deve vivere. La memoria, la storia patria o le tradizioni, vengono dappresso. L’argomento non è una digressione capricciosa, perché alla base del vincolo ci sono quei valori storici, urbanistici e paesaggistici «che sono da considerare fondamentali e percepibili manifestazioni identitarie», si legge nelle carte le quali, seppur scritte oggi, riecheggiano il linguaggio con cui nel 1971 una Commissione provinciale vincolò la zona costiera in quanto «bellezza di insieme caratteristica e tradizionale».

Ma è proprio la presunta identità del Borgo Murattiano che lo spettro di Gimma non riesce a digerire. «Di quale identità vanno fantasticando!», pare di sentirlo mentre si aggira per via Sparano, forse la strada più «identitaria», la quintessenza del Murattiano, secondo il comune sentire. «Ma proprio qui, in questa strada, tutto è cambiato», dice Gimma mentre attraversa il sagrato di San Ferdinando. Gimma passa il rassegna i palazzi che già alla fine dell’Ottocento con le sopraelevazioni e più tardi con le demolizioni e sostituzioni (numerosissime negli anni Trenta del secolo sorso) avevano mandato a gambe per aria le misure razionali del suo Borgo: le altezze dei palazzi, le distanze visive tra la strada e il prospetto dei fabbricati. «Che c’entra con le mie regole il palazzo dei Magazzini Mincuzzi disegnato da Forcignanò e Palmiotto?» si chiede Gimma. «E il palazzo delle Rinascente, grazie al quale il geometra Rampazzini diventò architetto? Che ha da spartire con i miei Statuti Murattiani?», rincara la dose apprezzando però il coraggio di quei suoi colleghi che hanno saputo lasciare un segno di progresso in una città che ormai aveva perso il proprio carattere. Gimma guarda ammirato i palazzi degli anni Sessanta: quelli di Chiaia e Napolitano, naturalmente, e con una punta di invidia quelli progettati da Vito Sangirardi e da Tonino Cirielli: «Avessi avuto io tra le mani questi materiali – dice stringendo i denti e accarezzando infissi di alluminio azzurro e pannelli di rossi lamierini ceramicati – avrei fatto faville!».

E invece, nelle minuziose, dettagliate prescrizioni che accompagnano il futuro vincolo, la bestia nera è proprio l’anticorodal, vietatissimo nonostante il nome commerciale indichi un tipo di alluminio ormai fuori produzione. Intendiamoci, è opportuno impedire che una antica finestra di legno sia sostituita da un infisso d’alluminio o di plastica, ma questo divieto diventa un tabu, anzi una metafora dell’intoccabile. Sicché nessun edificio costruito prima nel 1942 nel Murattiano, come nel Libertà o a Madonnella, potrà essere demolito e sostituto, perché di valore identitario. Solo in caso di crollo, si potrà ricostruire, ma un edificio identico al glorioso caduto, ancorché privo di particolari qualità architettoniche. Ed ecco a cosa ci ha portato la triste vicenda del falso Petruzzelli, ricostruito «com’era e dov’era» pur essendo ormai andato perduto nel rogo il «documento». I professionisti del falso dicono: «Rifare a l’idéntique». E a questo punto l’architetto Gimma ha un sospetto: «Non avranno scambiato il concetto di identità con l’aggettivo identico?».

NICOLA SIGNORILE

 

PIAZZA GRANDE di Nicola Signorile | 11_07_2012

Uno dei tre edifici realizzati in via Caldarola

Architetti popolari sulla strada del Giappone _ I palazzi Pirp di Calò e Nanna a Japigia

«Io abito al Giappone», diceva. E poi capivi che il Giappone per lui era Japigia nuova, il quartiere così lontano dalla città che l’autobus numero due sembrava la Transiberiana. Molti anni dopo avremmo scoperto che anche a Milano c’era una Corea: così gli abitanti avevano ribattezzato Quarto Oggiaro, grumo di case popolari piene di operai meridionali immigrati. Bari ha sempre avuto un feeling con Milano, inutile negarlo. Si vede anche da queste cose. Il Giappone barese come la Corea milanese sono stati epicentri del mercato della droga negli Ottanta e oggi sono interessati da politiche di rigenerazione urbana, di riqualificazione della periferia. A Bari, questa politica si chiama Pirp, ma a differenza di Milano qui la gestazione del «programma integrato» non ha conosciuto quella partecipazione popolare che invece ha rianimato Quarto Oggiaro e che pure la legge regionale pugliese 20/2005 indicava quale requisito obbligatorio per accedere ai finanziamenti europei. Come si è dimostrato nel tempo, il coinvolgimento della comunità è stato talmente clandestino che la comunità se ne è accorta a cose fatte (ne abbiamo parlato in questa rubrica  il ­­­­­­4 maggio 2001).

Un programma nato male e a cui si è cercato di dare una raddrizzata in corsa, almeno sul piano tecnico. Sono gli stessi architetti dei tre edifici costruiti in via Caldarola a dire che «la progettazione degli edifici ha comportato una revisione critica ed un approfondimento di quanto già previsto dal Pirp, sia negli aspetti distributivi quanto in quelli strettamente formali».
Pur così rivisti, i palazzi hanno suscitato reazioni negative nel quartiere, alle quali ha dato voce Matteo Magnisi, esponente di una associazione che opera a Japigia («Ancora scatole di opprimente cemento») a cui ha risposto maldestramente l’assessore comunale Gianni Giannini esaltando i vantaggi sociali ed economici che ne deriveranno, di fronte ai quali ha ben poca importanza l’estetica.

E invece questa era l’occasione per riparare al deficit di progettazione partecipata e ragionare sulle indubbie qualità di una architettura per la quale Antonella Calò e Grazia Nanna sono state segnalate nella sezione «under 40» del Premio Apulia, il concorso con cui la Regione intende accendere i riflettori sull’architettura contemporanea pugliese. Era ed è l’occasione per chiedersi infine se la buona architettura abbia davvero il potere taumaturgico di migliorare lo stato delle cose.

L’intonaco, per la sua neutralità, è un materiale che ben si presta ad una architettura caratterizzata dalla pulizia di linee geometriche essenziali, alla riduzione di pieni e vuoti a pura azione grafica. Ed è questo il carattere dei nuovi alloggi realizzati a Japigia. Il progetto di Calò e Nanna (con la guida di Franco Mantuano) ha voluto dare una risposta mite al tema di una edilizia residenziale pubblica (e dunque a basso costo) che però sia sostenibile dal punto di vista della futura gestione economica. A questo scopo rispondono le prestazioni energetiche dei fabbricati: rivestimento a cappotto per l’isolamento termico, impianto fotovoltaico per la produzione dell’ energia elettrica necessaria al condominio, accumulo dell’acqua piovana per l’irrigazione del verde. Tecnologie che tuttavia scompaiono nell’architettura dei tre edifici gemelli, privi di  balconi: gli affacci sono ricavati in logge grazie ad una doppia facciata che avvolge la costruzione stereometrica, essenziale e pulita, esaltata dalla pensilina di coronamento, unico elemento aggettante. Unico gesto orizzontale che contraddice la verticalità delle fasce di intonaco che salgono dal terreno senza alcuna interruzione ai piani.

La composizione architettonica di questi tre palazzi dimostra, comunque, una consapevolezza del rapporto con la storia dei luoghi. Appare evidente il confronto critico con l’architettura realizzata da Vittorio Chiaia alla fine degli anni Settanta, nell’ambito del Peep di Japigia, di cui lo stesso Chiaia era progettista, insieme a Domenico De Salvia e Giovanni Fuzio.  Ma anche la volontà di lasciarsi suggestionare da una cultura dello sviluppo urbano e della pianificazione delle periferie che, a conti fatti, ha acquisito al patrimonio pubblico aree libere sufficientemente grandi da consentire oggi una strategia di densificazione che reclama un alto controllo della qualità ed una diffusa, approfondita e autentica azione di partecipazione popolare alla progettazione.

NICOLA SIGNORILE

PIAZZA GRANDE di Nicola Signorile | 21_03_2012

masseria Cognetti, zona S. Fara

Vita da masseria: le ruspe o il gran turismo

Si chiama Noema ed è fra i cantieri aperti in città dalla Dec, la società del gruppo Degennaro al centro della bufera politico-giudiziaria di questi giorni. Nulla a che fare con gli appalti, con i parcheggi interrati e le case per i poliziotti oggetto delle indagini. Si tratta di palazzi, investimenti privati realizzati nell’ambito di una vasta lottizzazione (con altri imprenditori), fra lo Sheraton, Santa Fara e le palestre dell’Angiulli. Una regolare lottizzazione, che ha una storia antichissima: risale addirittura agli anni Sessanta, quando vigeva il piano regolatore di Piacentini e Calza Bini. Ad ostacolare l’apertura dei cantieri c’era una masseria fortificata del Settecento (segnalata nel Putt/p ma non vincolata): la masseria Cognetti, a corte chiusa e con annessa cappella di Sant’Anna. Poi, ignoti la demolirono il giorno di Ferragosto del 2007.

Esistono due specie di masserie: quelle che diventano alberghi di lusso e quelle che finiscono in macerie, una notte d’agosto, e lasciano spazio alle lottizzazioni: appartamenti, uffici e negozi. Bisogna aver fortuna, anche ad essere masserie. Certo l’inglese snob e l’attore famoso ed invisibile non erano iscritti nel futuro delle masserie, quando esse hanno cominciato a prendere forma e a connotare della propria presenza architettonica, economica e sociale il paesaggio pugliese. Quante sono le masserie fortificate in Puglia? Tante. Antonella Calderazzi ne ha schedate 600 e l’elenco non è ancora completo. Ma è significativo e prezioso perché – come ogni atlante moderno – indica un metodo, una tecnica di conoscenza, che è il presupposto della tutela del bene culturale. La protezione del patrimonio architettonico richiede un riconoscimento condiviso dell’oggetto e quindi un criterio di valutazione generale, al di là della «bellezza» del caso isolato: dalla masseria Jesce a Altamura a quella di San Giovanni di Zezza a Cerignola, dalla masseria Trappeto di Nardò a San Domenico di Fasano a Marchione di Conversano.

I magnifici 600 sono raccolti da Calderazzi, nel volume “Puglia fortificata. Le masserie” pubblicato dall’editore Adda con la consueta cura e con un sontuoso appartato fotografico, realizzato da Nicola Amato e Sergio Leonardi (il libro sarà presentato sabato prossimo, alle 11.30, al circolo della Vela). Il rettore del Politecnico Nicola Costantino, nella presentazione del volume (pp. 352, euro 50), sottolinea le diverse chiavi di lettura che offre il fenomeno delle masserie fortificate e le ragioni della loro attuale riscoperta, nell’ambito della cultura del costruire e dell’abitare sostenibile.

Le trasformazioni che le masserie fortificate hanno vissuto nel corso del tempo (da quella prima attestazione contenuta in una lettera che papa Gregorio Magno spedì nel luglio del 599 al vescovo di Gallipoli, fino all’abbandono delle terre nel secondo dopoguerra), possono essere considerate una metafora delle trasformazioni del paesaggio pugliese. «Dobbiamo giungere verso la fine del Novecento per assistere a una rivalutazione delle costruzioni tradizionali – scrive Calderazzi – e molte masserie sono state acquistate per essere adibite ad agriturismo in quanto unica funzione ad ammettere finanziamenti statali». Ed è così che «l’architettura rurale si riscopre nei suoi aspetti di solidità, di ricchezza ambientale, di suggestiva tradizionalità, di straordinaria eco-sostenibilità». Tuttavia la riscoperta delle masserie presso gli architetti e gli ingegneri ha ormai già una lunga storia e – anche se può apparire un paradosso – i suoi primi passi appartengono interamente al dibattito aperto in Italia a ridosso della crisi del Movimento Moderno, dopo il congresso del Ciam a Otterlo, nel 1959.

Nel paese che cerca nelle tradizioni costruttive locali la ragione di un nuovo linguaggio popolare dell’abitare (da Ridolfi a De Carlo, a Quaroni), è proprio la rivista di Bruno Zevi «Architettura Cronache e storia» ad aprire il dibattito sulle testimonianze delle tecniche costruttive rurali e spontanee in Puglia. Ne scrivono, alla fine degli anni Cinquanta, Enzo Minchilli e Bruno Barinci. Ed è in questo clima che prende forma l’interesse di Vittorio Chiaia per masserie, trulli e centri storici, intuendo inedite relazioni tra gli insediamenti rurali del mezzogiorno d’Italia e i «pueblos», scoperti nei suoi viaggi in America.

Fra strutture in acciaio e i courtain wall funzionalisti, Vittorio Chiaia ritaglia nelle sue lezioni universitarie uno spazio sempre più ampio e sempre più «istituzionale» allo studio delle masserie. In tale attività di ricerca si è formata Antonella Calderazzi, che di questo lavoro di Chiaia è la principale erede.

NICOLA SIGNORILE


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