
Cresce in città la voglia di essere Disneyland _ Murattiano, c’è odor di plastica
La prossima settimana si aprono ufficialmente le celebrazioni del bicentenario della fondazione del Borgo Murattiano e l’Amministrazione comunale ha chiamato per l’occasione un professore di Estetica a Mendrisio, Marco Romano, a parlare il 12 dicembre sul tema: La città di Bari come opera d’arte? L’idea, che sulle prime appare innocua ed ecumenica, in realtà è alquanto compromettente. Perché lascia intendere che una scelta di campo sia stata fatta e che ora un esercito di zombie, già posti in agguato, sia pronto a spargere sulla città una coltre spessa di melassa e a celebrare il buon tempo antico, ancorché di cartapesta.
Spieghiamoci. Marco Romano è l’autore di un pamphlet, pubblicato da Einaudi nel 2008 e intitolato, appunto, La città come opera d’arte. Il libricino, in cui si discute di periferie e di bellezza, si conclude con un programma politico: «Forse sarà venuto il tempo – scrive Romano – di riscattarci dal disastro di questo mezzo secolo – che sono mai cinquant’anni di débâcle in una vicenda antica di mille anni? – ricorrendo ancora una volta al linguaggio consolidato nei secoli, quello che costituisce la città in un’opera d’arte apprezzabile da tutti, e questo ritorno ci sembra necessario perché la sfera estetica della città è il mondo simbolico pregnante della cittadinanza e la cittadinanza è in Europa – come sosteneva Herder – il linguaggio stesso della propria città». Ma è Romano colui che sulla rivista «Urbanistica», nel 1981 aveva scritto: «La trasformazione di Venezia in una Disneyland potrebbe segnare il passaggio ad un modo di vivere più creativo, più allegro, è più festoso». A ricordarcelo è lo storico dell’arte Salvatore Settis che nel libro Paesaggio Costituzione Cemento, segnala come «il processo di disneyficazione dei centri storici era annunciato da tempo» e che la nomina di Romano « a membro del Consiglio superiore dei Beni culturali (2009) indica che il trend è ormai vittorioso».
Dunque Romano sembra l’uomo giusto al posto giusto e al momento giusto, in una strategia di ricostruzione retorica del centro murattiano, nella cui direzione (e indipendentemente dalle buone intenzioni) va la proposta di vincolo sui quartieri centrali, al centro delle discussioni di queste settimane. Al di là delle differenze di strategia tra Soprintendenza e Comune, quel che prevale è il sentimento di vendetta contro quell’ultimo mezzo secolo che Romano non riesce a mandar giù. Ciò che rimane è l’indifferenza rispetto al paradosso che si vuol produrre con questa operazione da chirurgo plastico: la cancellazione di qualsiasi traccia del secondo Novecento.
È solo un caso – ma forse anche un indizio – che alle riunioni della commissione regionale per il vincolo paesaggistico sui quartieri centrali abbia partecipato anche l’architetto della Soprintendenza ai Beni architettonici, Emilia Pellegrino, che nel 1983 era tra gli autori di una mostra (e poi di un libro) dal titolo Bari 1950-1980. La guerra dei Trent’anni. Le distruzioni nel borgo murattiano. La sua denuncia degli effetti della «speculazione edilizia, supportata da un forte sistema bancario» che ha condotto alla sostituzione di gran parte del patrimonio immobiliare del centro murattiano non è attraversata da nessuna notazione critica, non c’è la benché minima distinzione tra la pessima edilizia (maggioritaria) e i casi di pregevole costruzione realizzati in quegli anni. Nella galleria fotografica che accompagna le parole di Pallegrino, anzi, sono proprio gli edifici migliori ad essere additati come il morbo che avrebbe sfigurato la città.
Fra i «cattivi» ci sono anche le opere di architettura più belle e importanti presenti nel centro murattiano dal dopoguerra ad oggi. C’è il palazzo Sylos Labini, in via Marchese di Montrone, progettato da Vito Sangirardi; c’è il palazzo Laterza in via Sparano, progettato da Lambertucci; c’è il palazzo Miceli di Chiaia e Napolitano in via Cairoli; c’è il palazzo realizzato in via Argiro 73 e progettato da Onofrio Mangini per la famiglia De Florio. La particolarità di questo edificio, stretto al centro di un isolato, è nella facciata «ripiegata» in spigoli e asimmetrica. Ed è senz’altro per questo motivo, riconoscendovi una delle sue invarianti del Moderno, che un giorno Bruno Zevi in visita a Bari si fermò ad applaudire. Ma abbiamo il sospetto che questi edifici non rientrino affatto nell’idea di «Bari città d’arte» che si va facendo strada.
NICOLA SIGNORILE