Ricordando Gae Aulenti

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scenografia di Gae Aulenti per “Lo stesso mare”

Il gioco di Gae Aulenti nel mondo «postumo» _ I progetti «mancati» in Puglia. La piazza Pagano rinata a Potenza

«Stiamo vivendo la nostra attualità come un continuo superamento: di ideologie, innazitutto, ma anche di forme e di critiche». Ma nei rivolgimenti epocali era sempre stata a suo agio Gae Aulenti. E invece di smarrirsi di fronte alla frana delle certezze diceva: «Il nostro essere “post” o postumi, in tutti i sensi, ci legittima a creare cose che siano contemporaneamente utili e inutili, pregne di significato e insignificanti, con una forma e informi».

Sono parole che Aulenti ha pronunciato di recente ma si prestano perfettamente a spiegare la sua giovanile ribellione al dominio del Modernismo, al dogma della indissolubile coppia forma-funzione. Che poi questa ribellione l’abbia condotta a prendere parte all’eresia italiana del «Neorealismo» e ad approdare con il giovane Paolo Portoghesi e con Roberto Gabetti e Aimaro Isola al cosiddetto «Neoliberty» è solo una necessità della storia italiana. Una storia di provincia, nobile ma pur sempre provincia, che non è riuscita a trattenere l’architetto di formazione milanese (si era laureata nel ‘53 al Politecnico lombardo) ma con uno stile perfettamente internazionale che progetta opere diversissime per tipo e grandezza nei quattro angoli del mondo: dalla villa a Saint Tropez (1990) alla trasformazione in museo della dismessa Gare d’Orsay a Parigi (1980-86), dall’Istituto italiano di cultura a Tokyo al museo dell’Arte asiatica a San Francisco (1996-2003).

Il celebre slogan «dal cucchiaio alla città» calza a pennello alla personalità di Gae Aulenti protagonista del design industriale già nei primi anni Sessanta e artefice di importanti interventi urbanistici. Sul fronte degli oggetti, l’ironia avanguardista e la giocosità guidano la mano di Aulenti quando progetta la lampada Pipistrello (1965) e i mobili morbidi e tondi della serie Tennis (1971) e non ha paura di misurarsi con Duchamp montando quattro ruote di bicicletta sotto una lastra di cristallo per realizzare il tavolo Tour, nel ‘93, esagerata riedizione del tavolo con rotelle industriali concepito nel 1980 per Fontana Arte.

Sul fronte degli spazi urbani, il progetto per la nuova uscita degli Uffizi in piazza Castellani a Firenze e quello per la nuova piazza Cadorna a Milano dimostrano tutta la delicata, consapevole attenzione di Aulenti nel trattare la materia urbana, nell’intervenire a mettere ordine e ridare senso a parti della città storica. Tutte qualità che si possono ritrovare nel riqualificazione di piazza Mario Pagano, a Potenza, inaugurata solo due settimane fa: l’ultimo suo lavoro, portato a termine mentre si dava forma e sostanza al sogno di Vico del Gargano, con il progetto di «albergo diffuso» da realizzare nel centro storico attraverso il suo restauro: una delle più felici interpretazioni delle potenzialità del Parco del Gargano e del Piano regionale pugliese del paesaggio.

Ma a parte Vico, una serie di occasioni mancate ha segnato il rapporto di Gae Aulenti con la Puglia: la mancata trasformazione di una masseria settecentesca in centro turistico, in provincia di Taranto (a causa di insediamenti industriali), ma soprattutto i mancati musei baresi. Prima ci fu il progetto di un museo dell’arte contemporanea e del design a Villa Capriati, concepito nel 2001 insieme al museologo barese-milanese Saverio Monno; poi le chiesero un progetto di massima per il museo archeologico a Santa Scolastica. Consegnato, ma lasciato languire. Cambiano negli anni le amministrazioni della Provincia di Bari (commissionaria di entrambi i musei) ma non lo stile dei rapporti con Aulenti. La Provincia decide di bandire un concorso internazionale per Santa Scolastica. Gae Aulenti partecipa e il suo progetto (con l’archeologo barese Giulio Volpe) conquista il secondo posto. Il ministero dei Beni culturali boccia il primo arrivato e la Provincia potrebbe affidare l’incarico al gruppo di Aulenti, ma chiude la partita con un nulla di fatto. Una buona occasione sacrificata sul piano della insipida politica.

Solo in una circostanza – pur effimera – i baresi potranno vedere qualcosa che Gae Aulenti ha realizzato per la loro città: le scenografie per l’opera lirica “Lo stesso mare” realizzata l’anno scorso al Petruzzelli su libretto di Amos Oz, musiche di Fabio Vacchi e con la regia di Federico Tiezzi.

È una grande diga o il ponte di una nave o soltanto il ballatoio di un condominio affacciato su un mare gonfio di onde che si trasforma ora in deserto ora in giardino, secondo quella legge dell’incertezza e della metamorfosi del superamento che abbiamo riconosciuto nelle parole di Gae Aulenti richiamate all’inizio di questo racconto.

Per Gae Aulenti, quella scenografia al Petruzzelli non era certo la sua prima volta teatrale. Anzi, aveva iniziato a Prato negli anni Settanta, insieme a Luca Ronconi. Con lui aveva messo in scena Ibsen, Rossini, Berio e Stockhausen. «Il teatro mi ha aiutato molto per l’architettura, ma non so se è vero il contrario», ci disse una volta Aulenti che vedeva così nel teatro come nel museo una metafora concreta della città, quel mondo delle relazioni sociali e dell’impegno civile che era la misura del mestiere d’architetto, formato alla scuola di Ernesto Nathan Rogers. «Mi piace pensare – ci disse Aulenti – al museo come una cattedrale contemporanea, perché sono laica e quindi penso che quel che si racconta in un museo non è soltanto la memoria ma anche il modo in cui oggi si manipola la memoria».

di NICOLA SIGNORILE

da “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 02|11|2012

BEYOND _ IL SEGNO E IL DISEGNO Il progetto del teatro di Aix-en-Provence

Il Grand Théatre di Aix-en-Provence progettato da Vittorio Gregotti

Come la pittura l’architettura. Gregotti nel segno di Cézanne

“Fu inevitabile, quando cominciammo il progetto del teatro di Aix-en-Provence, luogo cézanniano per eccellenza, ricominciare a riguardare con nuova attenzione la pittura di Paul Cézanne, rivisitare i luoghi dei suoi paesaggi, delle montagne e delle cave (…) rivelatrici degli strati della natura da lui dipinta”. Di questo rivedere l’arte di Cézanne, interrogarla con una curiosità speciale, racconta Vittorio Gregotti in un breve libro, intitolato L’architettura di Cézanne e pubblicato da Skira (pp. 60, euro 10).

Invitato a realizzare un nuovo teatro nella città del celebre festival, ma in una zona semiperiferica, a ridosso di uno svincolo stradale e di un viadotto, Gregotti e gli architetti del suo studio vanno alla ricerca delle ragioni di necessità della nuova architettura – che sono nella storia dei luoghi – e trovano una risorsa straordinaria nella pittura del maestro francese che operò all’alba del ‘900. Ma bisogna, qui, ora, sgomberare il campo da un equivoco: il rapporto tra architettura e pittura – per Gregotti – non è così stretto come spesso si crede e non si può dire nemmeno (per la complessità tecnologica e organizzativa che il suo fare presuppone) che l’architettura sia tout court “arte visiva”.

In Cézanne Gregotti ritrova – al contrario – una ermeneutica dei luoghi parallela a quella che il costruire dispiega e che consente di vedere e rappresentare la stratificazione – geologica e storica – del paesaggio nel quale la nuova architettura si installa avendo “la doppia qualità di sorprendere ogni volta che la si rivede e nello stesso tempo apparire come fosse sempre stata, in quel luogo e per il mondo, come avesse da sempre fatto parte di quel paesaggio divenendo intimamente parte necessaria alla sua definizione”.

Chi guarda il teatro di Aix-en-Provence non può evitare di riconoscervi la montagna di Sainte-Victoire ripetutamente dipinta da Cézanne, oppure il paesaggio della cava di Bibémus dove l’artista aveva affittato un capanno. Il teatro appare come una collina di pietra e le gradonature evocano le pareti scavate nella roccia e raccontano le stratificazioni geologiche: una “architettura del terreno”, definisce Gregotti la trasformazione del costruire un edificio teatrale. Chi si avvicina alle pareti esterne del teatro, non può non notare sul margine dei conci di quarzo-arenite incisi alcuni nomi con a fianco un simbolo (una cazzuola, un metro, un martello) sono i nomi degli architetti, degli ingegneri, dei carpentieri e dei muratori che hanno lavorato nel cantiere e che firmano, pezzo per pezzo,una architettura che si proclama come un atto collettivo e organizzato, un trionfo del lavoro, opera delle opere che si accumulano e si slegano come gli strati di una terra profonda.

Così come la collina di pietra e il ribaltamento della cava, il suo contrario dialettico, così il teatro di Aix-en-Provence è un luogo che mette in discussione i rapporti fra interno ed esterno: il contenitore della platea, del foyer e del palcoscenico non sono un “monumento” da vedere, ma uno spazio pubblico che vive di una vita simultanea e autonoma rispetto alla attività teatrale dell’interno: uno spazio da raggiungere, da percorrere su scale e terrazze. Un luogo pietrificato di cui si può raggiungere anche la cima e di lì affacciarsi a guardare la montagna di Sainte-Victoire.

In questo gioco di specchi Gregotti ritrova l’intima relazione con Cézanne e al tempo stesso le ragioni del proprio impegno civile e teorico contro le tendenze dominanti dell’architettura contemporanea e lo starsystem: la ricerca della “verità”, cioè di un processo alternativo rispetto “allo stato di crisi delle arti visive e dell’architettura del contemporaneo, affondati nella provvisorietà splendente dell’assoluta attualità e della volontà di decostruire, senza alternative, natura e limiti del loro stesso campo d’azione”.

di Nicola Signorile

articolo da “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 27|03|2012

 

 
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