PIAZZA GRANDE di Nicola Signorile | 07_11_2012

Il nuovo dipartimento d’arte islamica nella corte Visconti del Louvre

Le vestali dell’antico sono allergiche ai metalli moderni _ Il Louvre, i vincoli e S. Scolastica

A Bari li avrebbero umiliati e offesi, se Mario Bellini e Rudy Ricciotti si fossero presentati con l’idea di una vetrata per coprire – facciamo un’ipotesi – un cortile della Manifattura dei tabacchi o di Palazzo Ateneo. Ma siccome e per fortuna Parigi non è Bari (nemmeno se piccola, con o senza mare) lì glielo hanno fatto fare: un grande tappeto volante lungo quasi 50 metri e largo una trentina. Poggia su otto pilastri quella superficie ondulata, traslucida di vetro e  – orribile a dirsi! – di alluminio. Proprio dentro il Louvre, che aveva bisogno di fare spazio alla collezione di arte islamica e lo spazio l’ha trovato nella neoclassica corte Visconti (1860): il nuovo padiglione è stato inaugurato solo un mese fa, dopo lavori ragionevolmente lunghi (sono durati cinque anni) e a ben dieci anni di distanza dal giorno in cui il presidente Chirac lanciava il progetto di un museo islamico, soltanto un mese dopo l’attentato alle Twin Towers.

Qui a Bari, invece, a confronto con il fanatismo dei tecnici della Soprintendenza persino gli affiliati ad Al Qaeda sembrerebbero pacifici relativisti: gli edifici – belli o brutti, non importa, purché costruiti prima del 1942 – abbiano soltanto infissi di legno e comunque mai e poi mai l’alluminio, in qualsiasi lega e versione! È quel che prevede la proposta di decreto di vincolo paesaggistico dei quartieri Murat, Libertà, Madonnella nonché di Bari vecchia che sta suscitando in queste settimane contestazioni da parte degli edili e opposizioni degli artigiani del metallo e tardive resipiscenze dell’amministrazione comunale e dei suoi tecnici che quei divieti futuri hanno contribuito attivamente a scrivere (come si rileva dai verbali della commissione regionale).

Il punto importante, ora, non è la scelta se fare una finestra di legno o di metallo (peraltro esistono sul mercato prodotti «sandwich» ad alta efficienza energetica) ma la volontà di imporre una sorta di prontuario del restauro, indipendentemente dal progetto che invece dovrebbe essere al centro dell’attenzione, con le sue ragioni e le sue libertà. Un inaccettabile, insostenibile manuale della presunta «purezza murattiana» che nega ogni possibilità di interpretazione contemporanea del riuso dell’edificio e della città, attraverso un onesto linguaggio contemporaneo che è fatto anche di materiali contemporanei. E per fortuna, dobbiamo dire a questo punto, c’è stata l’insipiente e insipida decisione dell’amministrazione provinciale di non affidare il progetto del museo archeologico a Santa Scolastica a  Gae Aulenti che conquistò il secondo posto nel concorso internazionale vinto nel 2008 dal gruppo di Cesare Mari con una proposta bocciata a Roma dal Comitato tecnico dei Beni culturali. Diciamo per fortuna, perché non vorremmo neanche immaginare Gae Aulenti, la signora dell’architettura italiana scomparsa la settimana scorsa, alle prese con le vestali dell’antico.

Il progetto di Gae Aulenti per Santa Scolastica, infatti, si annunciava come «una ulteriore fase di trasformazione dell’edificio» e prevedeva di conservare gran parte degli interventi realizzati negli anni Settanta da Angelo Ambrosi e Giuseppe Radicchio perché «è uno dei tanti strati che compongono  la storia dell’edificio». Alle facciate vetrate realizzate negli anni Settanta, per ridurre gli effetti della insolazione Aulenti sovrapponeva una facciata ventilata in acciaio corten: «una campitura astratta e neutra, priva di dettaglio, sfondo perfetto  – diceva l’architetto – in grado di dare risalto alle pareti originarie del complesso in pietra». La facciata d’acciaio da una parte avrebbe evitato il rischio di mimetismi e di ricostruzioni in pietra simil-antico, dall’altra avrebbe  dialogato onestamente – da contemporanea – con le costruzioni metalliche di Ambrosi e Radicchio.

Non è andata così, come sappiamo. Alla fine si è tornati alla vecchia idea della Soprintendenza, riveduta e corretta, ma sempre vendicativa verso la modernità. E mentre ripensiamo alle occasioni perdute, tornano alla mente le parole di Gae Aulenti che considerava un museo attuale alla stregua di una cattedrale: «perché quel che si racconta in un museo non è soltanto la memoria ma anche il modo in cui oggi si manipola la memoria».

Terribili parole, ma non ditele ai crocieristi che, uscendo dal Porto,  attraverseranno l’art-way dentro Santa Scolastica. Non capirebbero.

NICOLA SIGNORILE

 

Ricordando Gae Aulenti

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scenografia di Gae Aulenti per “Lo stesso mare”

Il gioco di Gae Aulenti nel mondo «postumo» _ I progetti «mancati» in Puglia. La piazza Pagano rinata a Potenza

«Stiamo vivendo la nostra attualità come un continuo superamento: di ideologie, innazitutto, ma anche di forme e di critiche». Ma nei rivolgimenti epocali era sempre stata a suo agio Gae Aulenti. E invece di smarrirsi di fronte alla frana delle certezze diceva: «Il nostro essere “post” o postumi, in tutti i sensi, ci legittima a creare cose che siano contemporaneamente utili e inutili, pregne di significato e insignificanti, con una forma e informi».

Sono parole che Aulenti ha pronunciato di recente ma si prestano perfettamente a spiegare la sua giovanile ribellione al dominio del Modernismo, al dogma della indissolubile coppia forma-funzione. Che poi questa ribellione l’abbia condotta a prendere parte all’eresia italiana del «Neorealismo» e ad approdare con il giovane Paolo Portoghesi e con Roberto Gabetti e Aimaro Isola al cosiddetto «Neoliberty» è solo una necessità della storia italiana. Una storia di provincia, nobile ma pur sempre provincia, che non è riuscita a trattenere l’architetto di formazione milanese (si era laureata nel ‘53 al Politecnico lombardo) ma con uno stile perfettamente internazionale che progetta opere diversissime per tipo e grandezza nei quattro angoli del mondo: dalla villa a Saint Tropez (1990) alla trasformazione in museo della dismessa Gare d’Orsay a Parigi (1980-86), dall’Istituto italiano di cultura a Tokyo al museo dell’Arte asiatica a San Francisco (1996-2003).

Il celebre slogan «dal cucchiaio alla città» calza a pennello alla personalità di Gae Aulenti protagonista del design industriale già nei primi anni Sessanta e artefice di importanti interventi urbanistici. Sul fronte degli oggetti, l’ironia avanguardista e la giocosità guidano la mano di Aulenti quando progetta la lampada Pipistrello (1965) e i mobili morbidi e tondi della serie Tennis (1971) e non ha paura di misurarsi con Duchamp montando quattro ruote di bicicletta sotto una lastra di cristallo per realizzare il tavolo Tour, nel ‘93, esagerata riedizione del tavolo con rotelle industriali concepito nel 1980 per Fontana Arte.

Sul fronte degli spazi urbani, il progetto per la nuova uscita degli Uffizi in piazza Castellani a Firenze e quello per la nuova piazza Cadorna a Milano dimostrano tutta la delicata, consapevole attenzione di Aulenti nel trattare la materia urbana, nell’intervenire a mettere ordine e ridare senso a parti della città storica. Tutte qualità che si possono ritrovare nel riqualificazione di piazza Mario Pagano, a Potenza, inaugurata solo due settimane fa: l’ultimo suo lavoro, portato a termine mentre si dava forma e sostanza al sogno di Vico del Gargano, con il progetto di «albergo diffuso» da realizzare nel centro storico attraverso il suo restauro: una delle più felici interpretazioni delle potenzialità del Parco del Gargano e del Piano regionale pugliese del paesaggio.

Ma a parte Vico, una serie di occasioni mancate ha segnato il rapporto di Gae Aulenti con la Puglia: la mancata trasformazione di una masseria settecentesca in centro turistico, in provincia di Taranto (a causa di insediamenti industriali), ma soprattutto i mancati musei baresi. Prima ci fu il progetto di un museo dell’arte contemporanea e del design a Villa Capriati, concepito nel 2001 insieme al museologo barese-milanese Saverio Monno; poi le chiesero un progetto di massima per il museo archeologico a Santa Scolastica. Consegnato, ma lasciato languire. Cambiano negli anni le amministrazioni della Provincia di Bari (commissionaria di entrambi i musei) ma non lo stile dei rapporti con Aulenti. La Provincia decide di bandire un concorso internazionale per Santa Scolastica. Gae Aulenti partecipa e il suo progetto (con l’archeologo barese Giulio Volpe) conquista il secondo posto. Il ministero dei Beni culturali boccia il primo arrivato e la Provincia potrebbe affidare l’incarico al gruppo di Aulenti, ma chiude la partita con un nulla di fatto. Una buona occasione sacrificata sul piano della insipida politica.

Solo in una circostanza – pur effimera – i baresi potranno vedere qualcosa che Gae Aulenti ha realizzato per la loro città: le scenografie per l’opera lirica “Lo stesso mare” realizzata l’anno scorso al Petruzzelli su libretto di Amos Oz, musiche di Fabio Vacchi e con la regia di Federico Tiezzi.

È una grande diga o il ponte di una nave o soltanto il ballatoio di un condominio affacciato su un mare gonfio di onde che si trasforma ora in deserto ora in giardino, secondo quella legge dell’incertezza e della metamorfosi del superamento che abbiamo riconosciuto nelle parole di Gae Aulenti richiamate all’inizio di questo racconto.

Per Gae Aulenti, quella scenografia al Petruzzelli non era certo la sua prima volta teatrale. Anzi, aveva iniziato a Prato negli anni Settanta, insieme a Luca Ronconi. Con lui aveva messo in scena Ibsen, Rossini, Berio e Stockhausen. «Il teatro mi ha aiutato molto per l’architettura, ma non so se è vero il contrario», ci disse una volta Aulenti che vedeva così nel teatro come nel museo una metafora concreta della città, quel mondo delle relazioni sociali e dell’impegno civile che era la misura del mestiere d’architetto, formato alla scuola di Ernesto Nathan Rogers. «Mi piace pensare – ci disse Aulenti – al museo come una cattedrale contemporanea, perché sono laica e quindi penso che quel che si racconta in un museo non è soltanto la memoria ma anche il modo in cui oggi si manipola la memoria».

di NICOLA SIGNORILE

da “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 02|11|2012

PIAZZA GRANDE di Nicola Signorile | 08_08_2012

Il palagiustizia firmato Oriol Bohigas

Al Palagiustizia uno e bino serve un teologo _ Ora ci prova anche Bohigas 

Un Palagiustizia nel Tondo di Carbonara: è l’ultimo episodio dell’interminabile feuilleton dell’edilizia giudiziaria barese. Il progetto è stato presentato nei giorni scorsi da un gruppo di aziende baresi ai magistrati e al Comune: inevitabile il confronto con il progetto della Cittadella della giustizia dell’impresa parmense Pizzarotti, anche perché i rispettivi insediamenti sono confinanti.

Che opinione ne possiamo avere? Benché del progetto – firmato da Oriol Bohigas e da Domingo Sylos Labini – si conosca ancora poco, si può già valutare l’idea nelle sue luci ed ombre. Cominciamo da queste ultime.

Primo. il trasferimento di una parte della amministrazione della giustizia – soltanto il settore penale – provocherebbe al pari della Cittadella di Pizzarotti – un depauperamento funzionale, economico ma soprattutto sociale del quartiere Libertà. Danno comunque limitato perché il tribunale civile rimarrebbe in piazza De Nicola. Dal punto di vista della Commissione di manutenzione presso la Corte di appello che propugna e reclama la Sede unica, la separazione del Penale dal Civile sarebbe certo un fattore negativo. Altri pensano però il contrario, anche nella prospettiva del processo telematico.

Secondo. Un’opera pubblica di tali dimensioni, forse la più importante realizzata negli ultimi trent’anni a Bari (al di là della natura privata della proprietà) dovrebbe essere il risultato di un concorso internazionale di architettura e non di un affidamento diretto. Abbiamo lamentato questa mancanza per la Cittadella di Pizzarotti, vale anche in questo caso.

E veniamo alle luci, cioè agli aspetti positivi dell’idea.

Primo, il ricorso al nuovissimo strumento del «contratto di disponibilità», ultima invenzione del governo Monti che l’ha inserito nel Codice degli appalti per dare una inedita e più efficiente declinazione al partenariato pubblico-privato, sull’esempio di quel che si fa a Parigi per la costruzione del nuovo palazzo di giustizia progettato da Renzo Piano (vincitore di concorso). Una procedura sulla quale difficilmente avrebbe qualcosa da dire la Commissione europea di Bruxelles che invece ha avviato la procedura di infrazione contro il governo italiano per il contratto della Cittadella che il Consiglio di Stato impone al Comune di Bari.

Secondo aspetto positivo. La realizzazione di un palagiustizia da 80mila metriquadri di superfici nell’area del Tondo non avrebbe bisogno di alcuna variante al Prg perché già compatibile con le previsioni urbanistiche in quella che è un’area F (terziario direzionale). Anzi, il Comune aveva già scelto quell’area per la Giustizia con la delibera n. 254 del 1991. A ricordarlo è – che coincidenza! – l’architetto Claudio Catucci, il progettista della variante per realizzare in suolo agricolo la Cittadella di Pizzarotti, nominato dal Commissario ad acta. Catucci sfrutta quella antica decisione e la compatibilità urbanistica del Tondo al fine di giustificare – per contiguità – la variante che trasforma in città 29 ettari di campagna degli eredi Lamberti.

Il fatto appare una contraddizione anche alle associazioni firmatarie delle osservazioni depositate al Comune. Osservazioni alle quali l’architetto Catucci e il commissario Albenzio rispondono con un prevedibile rigetto, ma attraverso un argomento tautologico, direbbe un filosofo: la cittadella va costruita su quelle aree agricole senza valutare la disponibilità di altre aree perché il Consiglio di Stato ha indicato proprio quei 29 ettari catastalmente individuati: «Il commissario non può procedere ad esaminare soluzioni alternative senza violare l’ordine e le statuizioni del Giudice». Il fatto che la ricerca di mercato, da cui prende origine tutta la lunga vicenda, fosse basata sulla erronea affermazione che nel piano regolatore non ci fossero aree adeguate dal punto di vista urbanistico, sembra non aver alcun peso nè significato.

E dunque il giudice evocato da Catucci come Anselmo d’Aosta ci offre una ontologia della Cittadella. A Gaunilone che obiettava la fragilità di una prova dell’esistenza di dio ricavata dalla sola proclamazione della sua perfezione, Anselmo rispondeva che «è cosa di cui cui non si può pensare nulla di maggiore». Nemmeno dopo la «Spendig review» che taglia drasticamente gli spazi negli uffici pubblici. Ma a questo punto il teologo Anselmo si fa agnostico: «I parametri tecnici – scrive Catucci – saranno definiti nella fase attuativa (…) anche in relazione alle sopravvenute normative in tema di Spending review».

E se poi la cittadella si rivelasse troppo grande?

 

NICOLA SIGNORILE

PIAZZA GRANDE di Nicola Signorile | 27_06_2012

Nuovi o restaurati ma solo in città i tribunali dei cugini _ E Renzo Piano la spunta a Parigi

 

Sede unica o niente! Oggi la Commissione di manutenzione presso la corte di Appello deve decidere sul trasferimento urgente della Procura, ma fino all’ultima riunione ha rifiutato qualsiasi alternativa, sia pure provvisoria, che non sia la cittadella di Pizzarotti in suolo agricolo. Eppure è la stessa Commissione (non le stesse persone, naturalmente) che nel 2000 approvò il palazzo di via Nazariantz poi rivelatosi un rudere precoce. Eppure lo giudicò ottimo, addirittura un affare e ne consigliò l’acquisto al Comune (che per fortuna non ci cascò). Fu la stessa commissione a decidere che oltre agli uffici della procura e del gip lì ci potessero andare anche le aule di dibattimento, inducendo l’impresa a cambiare progetto in corso d’opera. Oggi la commissione torna a reclamare la sede unica, ben più ampia degli 80mila metri quadri effettivamente necessari, ma soprattutto fuori dalla città.
E i nostri cugini francesi, che fanno? Vediamo. 

Ormai si sta un po’ stretti nel Palazzo di Giustizia di Strasburgo. L’edificio progettato dall’architetto tedesco Skjold Neckelmann e costruito nel 1897 non è però da buttar via e perciò sarà ristrutturato ed ampliato aggiungendovi duemila metri quadri. Questo è ciò che prevede il progetto del catalano Jordi Garcés che ha vinto, insieme allo studio Serra-Vives-Cartagena, il concorso indetto un anno fa. I lavori, che cominceranno nel 2013 e termineranno nel 2016,  costeranno poco più di 63 milioni di euro (due terzi a carico dello Stato). In questo modo, Strasburgo continuerà ad avere il suo tribunale in pieno centro, sul Quai Finkmatt, a un paio di isolati dalla Biblioteca nazionale e dal teatro dell’Opera, tra un ristorante cinese e una bottega di tatuaggi. Ospiterà il Tribunal de Grande Instance, la Corte d’assise e la cancelleria commerciale. Il resto, in altri edifici sparsi qui e là (la procura è in place d’Islande) dal momento che in Francia non ha molto successo la teoria della sede unica. «In generale, un palazzo di giustizia si costruisce  intorno ad un’aula d’assise maestosa. Ma ciò che di questo progetto mi ha sedotto è che l’architetto ha ribaltato il concetto della costruzione mettendo in basso tutto ciò che si svolge in pubblico», ha spiegato Benoît Rault, il presidente del Tribunal de Grande Instance con uno slancio civico che ci lascia ammirati per la maniera di misurasi con i valori simbolici – in una democrazia – di certi luoghi.

A Parigi invece il nuovo tribunale lo costruirà l’italiano Renzo Piano. Nascerà nel quartiere di Batignolles, uno dei luoghi più amati dagli impressionisti (è a due passi da Montmartre), ma anche uno dei quartieri storici interessati da poderosi programmi di rigenerazione urbana.

Il progetto di Renzo Piano consiste in un edificio alto 160 metri, destinato perciò a modificare lo skyline della capitale francese. Si comincia a costruire l’anno prossimo, si finirà nel 2016.  Pur offrendo 90 aule d’udienza e la capacità di accogliere 9mila persone, nemmeno il nuovo palazzo di giustizia parigino sarà sede unica: alcuni uffici rimarranno dove sono, sparsi nella città e certamente la Corte d’appello resterà nella sua storica sede, all’Île de la Cité, che si specchia nella Senna.

Ciò nonostante, «questo è il più grande progetto mai condotto dal Ministero della Giustizia», ha detto il ministro Michel Mercier. E in effetti il costo dell’operazione si aggira sui 600 milioni di euro, in parte finanziamenti privati ottenuti attraverso un sistema di partenariato che assomiglia un po’ al project-financing, ma presuppone una gara autenticamente combattuta (non come si fa in Italia…). Renzo Piano infatti è il progettista scelto da un consorzio di imprese guidato da Bouygues Bâtiment Île-de-France, che ha sconfitto la Vinci Constrution con un progetto firmato da Rem Koolhaas (un altro grattacielo, beninteso).

La gara bandita dal Eppjp (l’ente pubblico messo su per gestire la costruzione del nuovo tribunale) ha mandato in archivio un altro precedente concorso, che risale a ben sei anni fa: allora si era scelto di costruire il palazzo di giustizia sul sito ferroviario dismesso di Tolbiac, salvando il vecchio mercato ortofruttolo all’ingrosso, scelta governativa contestata dalla municipalità di Parigi.

Ma non fu vana l’attesa: almeno Renzo Piano ci ha guadagnato, anche perché sembra che per il suo nuovo lavoro si sia ispirato ad uno dei progetti finalisti di Tolbiac: quello dello studio francese 3Box. Ma queste sono maldicenze del critico.

 NICOLA SIGNORILE

PIAZZA GRANDE di Nicola Signorile | 18_04_2012

un particolare dello stadio San Nicola

Lo stadio di Piano: un vecchio frac che perde il teflon _ La manutenzione (costosa) del genio 

Come diceva il capocomico alle ballerine del varietà: bambole non c’è una lira! Così l’assessore comunale allo sport Elio Sannicandro, dopo che il ventaccio di Pasquetta ha squarciato il teflon di un altro pezzo (il quinto) della copertura dello stadio San Nicola. Che, per ora, resta così: soldi non ce ne sono; rifare ogni spicchio costa 150mila euro e il Comune ha altre urgenze.

L’ultimo danno atmosferico ha risvegliato antichi rancori verso l’«astronave» che i baresi non hanno mai amato troppo (gli spettatori, a ragion veduta). Tutta colpa dell’architetto Renzo Piano? O dei costruttori? Va detto che lo stadio, come ogni edificio, ha bisogno di manutenzione e il teflon – all’epoca un “nuovo materiale” nato in laboratorio – era garantito per 10 anni: ne sono passati più di 20 e quindi, come la stazione spaziale sovietica Mir, il suo lavoro l’ha fatto oltre ogni aspettativa. Forse bisognava sostituire per tempo le coperture. Ma quanto costa? Ne sanno qualcosa i francesi che han dovuto metter mano al portafogli per ristrutturare gli impianti a vista dell’opera che ha determinato il successo mondiale di Piano: il Centre George Pompidou (o Beaubourg) a Parigi. Anche i frati di San Giovanni Rotondo sono alle prese con i considerevoli costi di manutenzione della superchiesa di San Pio, soprattutto dopo l’accidentale crollo di una campana dal campanile orizzontale progettato a strapiombo sulla valle dal genovese. Il quale viene inseguito da notizie di piccoli e grandi danni, come quella ricorrente (e che lui protesta infondata) del lento inabissarsi del suo aeroporto di Osaka, insieme all’isola artificiale che lo sostiene in mezzo al mare.

Il rischio di un flop è l’angoscia delle archistar. Il ponte di Calatrava a Venezia si scoprì subito una trappola per turisti incauti che, nei giorni di pioggia, scivolavano come pattinatori sul pavimento di cristallo. Ma ci sono storie ancora più educative degli effetti perversi dell’alterigia delle archistar e alcune le racconta John Silber nel pamphlet «Architetture dell’assurdo» (Lindau ed.). Prendiamo Ieoh Ming Pei, quello della piramide del Louvre: la ditta John Hancock ha dovuto spendere un patrimonio per riparare gli errori di progettazione del suo grattacielo a Boston: soprattutto la superficie vetrata, costituita da grandi lastre di tre metri per due, che a causa delle dinamiche dell’edificio cominciarono presto a incrinarsi e a precipitare al suolo, una dopo l’altra. Per risolvere il problema i dirigenti della Hancock si rivolsero ad un noto ingegnere, Arthur Metcalf, che suggerì di sostituire le lastre con pezzi più piccoli. Ma Pei fu irremovibile e alla fine prevalse la sua idea: le stesse lastre ma più pesanti e dotate di un allarme che avvisa quando stanno per rompersi, in modo da sostituirle in tempo. Finora, la Hancock ha speso ben 34 milioni di dollari per la sua ostinazione.

Anche un maestro indiscusso dell’architettura del Novecento come Frank Lloyd Wright ha avuto le sue defaillance. Quando nel 1935 progettò la famosissima casa sulla cascata il suo cliente, il signor Kaufmann, si impensierì del forte aggetto delle terrazze e chiese una consulenza a certi ingegneri che disposero rinforzi strutturali.  Wright se ne accorse e andò su tutte le furie. Si fece come diceva lui ma in effetti poco dopo  le terrazze si incrinarono e si piegarono. E si dovette allora rinforzarle, con maggiore spesa. Anche il genio di  Frank Gehry si è rivelato più costoso del previsto per i proprietari della Walt Disney Concert Hall realizzata a Los Angeles nel 2003. I dirimpettai della sede della Philarmonic si lamentavano dei potenti riflessi di luce prodotti dalle pareti di acciaio inossidabile del sinuoso edificio. Pare che nelle loro case, a causa del sole proiettato, la temperatura aumentasse di 9 gradi. Hanno fatto causa ed hanno vinto. Alla fine gli amministratori della L. A. Philarmonic  hanno dovuto ricoprire le ardite volute con panni di metallina, spendendo un bel po’ di quattrini per un mediocre risultato. Come dice John Silber: «ricorda un vestito da sera fatto di tela da sacco».

Lo stadio barese di Renzo Piano, invece, ricorderà certi nobili caduti in disgrazia: con il frac, macchiato e strappato, in fila all’ufficio di collocamento.

NICOLA SIGNORILE

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