Come prima, peggio di prima

Nella foto, gazebo in piazza Arringo ad Ascoli (Labolognese)

La pandemia, tra gli innumerevoli risvolti negativi, ha avuto almeno il merito di riaccendere il dibattito intorno ai temi della città e dell’abitare.

Per un breve periodo, coincidente soprattutto con la fase iniziale delle misure contenitive che hanno imposto il confinamento forzato presso il proprio domicilio, ci siamo illusi che qualora ne fossimo usciti ne saremmo venuti fuori certamente migliori, più consapevoli e quindi più preparati a fare i conti con gli errori del passato e ad affrontare il futuro. <Rimaniamo distanti oggi per riabbracciarci più forte domani> è stato il motto del Presidente del Consiglio dei Ministri Giuseppe Conte. Un messaggio di fiducia nel futuro che ha fatto serrare le fila ai cittadini, ha permesso di contenere il dilagare dell’infezione e di avere un orizzonte verso cui guardare. 

Oggi, man mano che le restrizioni si allentano e progressivamente riconquistiamo gradi di libertà, fisici e non, appare sempre più evidente e reale la possibilità di una riaffermazione dello status quo ante: tutto esattamente come prima.

Tale evidenza emerge innanzitutto dalle misure intraprese in campo economico dove è lapalissiano che tutti i tentativi di far ripartire il processo produttivo si basino sulla logica del pompare risorse economiche verso il sistema esistente per rimetterlo in moto. Il tutto come prima significa la riaffermazione di quel neoliberismo predatorio che, parola di esperti, insieme allo squilibrio degli ecosistemi è stato la causa stessa di questa pandemia e la possibile di future.

La televisione mentre terrorizza gli spettatori con speciali dedicati alla pandemia conditi con preghiere in diretta, contemporaneamente manda in onda i soliti messaggi pubblicitari che incentivano la corsa ai consumi.

La diretta conseguenza è la smania dell’acquisto sregolato, accompagnato da spostamenti individuali con propri mezzi di trasporto (ancora più numerosi del pre-Coronavirus, se possibile): la declinazione del tutto come prima nella città.

La città è intrinsecamente distruttrice, è un artificio che nasce dalla distruzione del mondo naturale. Sì, il nostro abitare, l’abitare dei moderni, è ortogonale alle leggi della natura: distruggiamo ambienti vitali, deforestiamo, cementifichiamo, tombiamo corsi d’acqua, riduciamo la diversità del vivente. Dovremmo piuttosto abitare nel rispetto della natura: non Grandi Opere, ma foreste di alberi (veri però, quelli verticali non abbandoniamoli ma ricordiamoci che del bosco non hanno molto, garantiscono solo una porzione infinitesima dei servizi ecosistemici dei boschi veri, quelli orizzontali), strade pedonali, percorsi ciclabili, mezzi pubblici, orti anziché parcheggi. Ripensare la città post-Covid significa pensare ad una «nuova ecologia» capace di integrare ambiente urbano e ambiente naturale.

Se durante la prima fase di lotta contro questo nemico invisibile a farla da padrone è stato l’ambiente domestico, con l’avvio della Fase 2 stiamo tornando a ripopolare quegli spazi così insolitamente vuoti che abbiamo ammirato smarriti tra delizia e sgomento nelle suggestive vedute a volo di drone di piazze, scalinate e corsi cittadini svuotati della presenza umana nella Fase 1 e che hanno costituito l’immagine emblematica di questa epoca senza precedenti.

Ora possiamo quindi tornare a respirare all’aria aperta; l’unica cosa che ci viene chiesta è di farlo senza creare assembramenti.

C’è uno spazio in cui il distanziamento sociale (orrenda definizione per riferirsi, in realtà, al distanziamento fisico – si può essere “vicini” socialmente senza alcun rischio di propagazione virale) può avere luogo senza privare il cittadino di altre libertà: lo spazio pubblico.

Mai come in questi mesi abbiamo sentito il bisogno della piazza e della strada: della sua offerta di libertà ed eguaglianza e del suo renderci e farci sentire comunità.

Eppure proprio mentre ci accorgiamo di quanto importante sia questo spazio, troppo spesso sacrificato in nome del bilancio, troppo spesso bistrattato dalla disaffezione/disattenzione degli abitanti, si decide di intervenire con ulteriori forme di privatizzazione, come quella di garantire a bar e ristoranti di poter occupare ulteriore suolo pubblico con tavolini, ombrelloni, pedane, gazebo e analoghe strutture (insomma parliamo di quegli obbrobri che qualcuno ricorrendo al termine esotico dehors cerca di far passare come un segno di modernità e che invece uccidono la città, da casa della comunità a eterno, diffuso bivacco). Come se non bastasse la cessione ampliata diventa persino gratuita e può essere autorizzata senza il preventivo parere della Soprintendenza. Cioè si tratta di cedere un “pezzo” che appartiene a tutti noi in quanto cittadini ad una società privata senza che si riceva in cambio neppure un indennizzo per la sottrazione subita e senza che la trasformazione dello spazio venga valutato in contesti sensibili, di interesse storico-artistico. Pensiamo alle nostre antiche piazze, circondate da chiese e palazzi che da secoli sono stati il fulcro della vita pubblica cittadina e ora soccombono sotto l’ingombrante presenza di estensioni della proprietà privata.

La stessa logica muove l’idea di concedere ulteriori spiagge libere alla gestione privata con la giustificazione che in questo modo sarebbero possibili misure di controllo delle presenze e del necessario distanziamento.

La pericolosità di simili misure si estrinseca sotto diversi aspetti; innanzitutto equivale ad affermare la subalternità del bene comune ad altri interessi, significa affermare una scala di valori e dare in questa scala un ruolo secondario a uguaglianza, accessibilità, salubrità, vivibilità rispetto al ruolo preminente accordato invece a tutto quello che è immediatamente monetizzabile; significa delegittimare ancora di più la Soprintendenza (dopo la criminale azione di chi l’ha definita la più brutta parola di tutto il vocabolario della burocrazia), il cui parere è lusso per tempi opulenti, bene voluttuario sacrificabile in questa fase di difficoltà economica.

Si potrebbe obiettare che la ristorazione è il motore della nostra economia, ma questo equivarrebbe ad una confessione di colpa, all’ammettere che l’intero sistema economico si basa su presupposti sbagliati. Dai nostri errori avevamo però giurato di voler imparare, non di perseverare in essi. Quindi perché non abbandonare una buona volta il mantra del turismo volano dell’economia, e canale prioritario se non addirittura unico dei flussi economici di un territorio, in questo modo inesorabilmente destinato a fallire? A chiunque abbia un minimo di esperienza agricola è noto che le monoculture impoveriscono il terreno e sono soggette a patologie infestanti, mentre i campi biodiversi sono più salubri e più resistenti agli attacchi esterni. Allo stesso modo in ambito urbano la mixité, economica ma anche sociale, è l’unica vera possibilità di garantire un futuro alle nostre città, soprattutto ai nostri centri storici che, come capito per primo da Cederna, sono un complesso unitario e non un assortimento di edilizia minore e di emegenze architettoniche. <il carattere principale  di questi antichi centri di città – scriveva nell’introduzione a I vandali in casa del 1956 mentre, per intenderci, negli stessi anni furoreggiavano ancora le teorie del diradamento di Gustavo Giovannoni– non sta nei “monumenti principali”, ma nel complesso contesto stradale ed edilizio, nell’articolazione organica di strade, case, piazze, giardini, nella successione compatta di stili e gusti diversi, nella continuità dell’architettura minore, che di ogni nucleo antico di città costituisce il tono, il tessuto necessario, l’elemento  connettivo, in una parola l’ambiente vitale>.

Qualcuno potrebbe anche asserire che pur sempre di concessioni provvisorie si tratta. Ma nulla in Italia è mai risultato più stabile e permanente del provvisorio e dell’emergenziale.

Se vogliamo davvero adottare uno sguardo lungimirante la mossa strategica contro le pandemie del futuro è ripensare la forma della città e anche il suo rapporto con la campagna, in questo periodo tornato ad essere oggetto di rinnovato interesse. Dopo anni di manifesti e saggi che incoronavano la città come entità salvifica per l’uomo, ora è l’ambiente rurale con le sue ampie superfici, l’aria pulita e le unità abitative sufficientemente distanti tra loro ad essere indicato come habitat ideale. Peculiarità che andrebbero perse nel momento stesso in cui avvenisse davvero un esodo di massa dalle città nelle campagne. Per coprire le maggiori distanze aumenterebbero gli spostamenti individuali su ruota o nel migliore dei casi ci si affiderebbe ai mezzi pubblici. Mezzi pubblici che attualmente non costituiscono un’alternativa concreta, perché calibrati sulla scarsa densità demografica delle zone extraurbane. Quindi diventerebbe necessario investire in un enorme piano infrastrutturale per collegare capillarmente i territori, i quali perderebbero di conseguenza ogni invariante tipica delle campagne, assomigliando sempre di più alle città. Per non parlare dell’inevitabile aumento del consumo di suolo che una ripopolazione delle aree extraurbane comporterebbe.

Ripensare, dicevamo, la città e il suo rapporto con la campagna. Arrestare la cementificazione dei suoli agricoli, governare la crescita urbana anche mediante misurate azioni di riuso (e anche abbattimento) di edifici abbandonati e/o abusivi, contrastare il diffondersi dei ghetti urbani mediante accorte politiche dell’abitare, osare e riportare i cittadini nei centri storici (magari come proposto da Vezio De Lucia e Enzo Scandurra trasformando gli immobili pubblici in case popolari invece di svenderli sul libero mercato, chissà forse qualche dehors lascerebbe il posto a qualche bottega di artigianato, forse qualche take away si trasformerebbe in un negozio di vicinato o ancora qualcuno potrebbe avviare una piccola ma qualificata attività d’impresa), scoraggiare il moltiplicarsi di quartieri o edifici superaffollati, privilegiare la diversità urbana e le caratteristiche uniche dei centri storici, favorire la creazione di corridoi ecologici che facciano penetrare la natura nella città e non la città nella campagna. Avremmo città davvero resilienti e non solo propagandisticamente definite tali.

Certo sarebbe necessario un atto di coraggio. È in momenti eccezionali che emergono pensieri coraggiosi. Il momento è eccezionale …

Roberta Signorile

Pasquale Pulito

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