
Nei giorni scorsi l’abbattimento della Vela verde di Scampia ha riaperto il dibattito sul rapporto tra qualità dell’architettura e comportamento sociale. A questo si aggiunge la diffusa malcelata avversione per l’architettura moderna e contemporanea. Oggi, a due giorni dalla sua morte, “Il Fatto Quotidiano” pubblica un articolo di Vittorio Gregotti dal titolo “Pull-it-down” scritto il 18 giugno 1996 per “Golem”, la storica rivista online fondata da Umberto Eco, Gianni Riotta e Danco Singer. Un articolo che ripubblichiamo e che si presenta come una riflessione sempre attuale sul tema.
Colpe e no – L’avversione all’edilizia pubblica dimentica due fattori: la condizione monoclasse degli abitanti e la pessima gestione politica. Se mettessimo 200 famiglie di poveri in una villa del Palladio, l’effetto degrado non sarebbe meno terrificante – cosa succede in città.
I risparmi di suolo e la loro relativa attrezzatura a verde e servizi, che è un vantaggio che da essa dovrebbe derivare, sono infatti stati realizzati in generale pessimamente o non realizzati affatto, con il risultato disastroso che conosciamo. Ma soprattutto l’edilizia popolare è il simbolo di alcuni valori, come l’uguaglianza, la collettività solidale, la condizione proletaria, che sono oggi tra i più avversati.
Solo che nel 90% dei casi le responsabilità delle disastrose condizioni abitative che esse sovente rappresentano non derivano quasi mai dalla soluzione architettonica, buona o cattiva che sia, ma dalla condizione monoclasse degli abitanti, dal loro comune livello di reddito basso e spesso assai incerto e dalla conflittualità interna che da ciò deriva. Inoltre sono da attribuire alla mancanza di articolazione nelle destinazioni d’uso funzionali, alla scarsità dei servizi e dei trasporti e soprattutto alla pessima gestione degli immobili e degli spazi aperti da parte delle pubbliche amministrazioni; al fatto, infine, che tutto questo rende estraneo, anzi nemico, il patrimonio pubblico.
Provate a infilare e poi abbandonare duecento famiglie di poveri, di disoccupati e di arrabbiati dentro a una villa del Palladio e in pochi anni l’effetto di degrado non sarà meno terrificante.
A Londra due quartieri popolari costruiti quasi nello stesso periodo trent’anni or sono da ottimi architetti hanno avuto destini divergenti. Il quartiere di Roehampton è un paradiso, quello del Golden Lane è divenuto un inferno di delinquenza e di degrado, per pure ragioni di gestione. La Francia sta facendo da anni una politica di ricostruzione dei suoi grands ensembles, politica di ricostruzione dei tessuti, dei servizi e di utilizzazione sociale degli spazi aperti, politica che ha conseguito qualche successo. In Germania alcuni quartieri popolari sovvenzionati costruiti negli anni Venti sono divenuti addirittura monumenti nazionali.
Anche per quanto riguarda l’Italia e in particolare il quartiere ZEN, a Palermo, di cui ho avuto la responsabilità di progetto e che è in questi casi molto citato, anch’io lo abbatterei, ma per poterlo rifare come era stato pensato: sui suoi princìpi progettuali ho scarsi pentimenti. Non solo l’esecuzione, del tutto al di fuori del mio controllo, è stata pessima, non solo non è stato realizzato nessuno dei servizi previsti (scuole, centro di commerci, attrezzature sportive, spazi per la piccola produzione, trasporti, ecc.), ma il Comune non ha nemmeno fornito le infrastrutture essenziali, come le fognature, la luce, l’acqua potabile. Il quartiere è stato sin dall’inizio occupato abusivamente – e si è lasciato che questo accadesse – e il suo tessuto sociale si è così ridotto al suo stato peggiore.
La ricerca su ciò che può essere demolito andrebbe comunque estesa; anzi, andrebbero posti in primo piano non solo gli orribili edifici che hanno distrutto intere parti delle nostre città storiche con la propria presenza (ai quali occorrerebbe dedicare un intero libro solo per farne l’elenco) ma la sordida periferia della speculazione edilizia che ha degradato senza possibilità di riscatto e con enorme estensione qualitativa le periferie delle nostre città, opprimendole con una densità edilizia e senza valore, una mancanza di spazi aperti e di servizi senza possibilità di riscatto e una qualità architettonica di infimo ordine nel 90 per cento dei casi. Le possibilità di miglioramento offerte da qualsiasi quartiere pianificato, anche il più scadente, sono infinitamente più alte di quelle dell’espansione senza regole guidata dal profitto e dal cosiddetto “libero mercato” senza regole. Capisco molto bene che è più facile additare alla demolizione il patrimonio pubblico piuttosto che quello dei singoli, ma questa è solo una condizione storica.
Tutto ciò per non parlare dello scempio ambientale compiuto dalle discariche, dalle cave, dall’occupazione delle coste, dagli insediamenti diffusi senza regole che operano distruzioni di interi paesaggi e delle stesse organizzazioni produttive della campagna.
Tutto questo non significa che la classe professionale degli architetti sia senza colpe, tuttavia quelle maggiori stanno dalla parte di chi si è posto al servizio della speculazione volgare piuttosto che dalla parte di chi ha cercato, magari ingenuamente o magari sbagliando, di fondare un modo di abitare la città ragionevole e civile, anche se utopico.