
Una porta di luce per la Fiera del cambiamento _ I progetti di Marino Lopopolo
La quinta edizione è quella della svolta, per la Fiera del Levante: i padiglioni intorno alla piazza quadrata, oltre l’ingresso neomedievale disegnato dall’architetto romano Cesare Augusto Corradini, le vanno troppo stretti. Non solo per le dimensioni degli spazi espositivi ma anche e forse soprattutto per motivi – diremmo oggi – di comunicazione. I padiglioni generalisti non consentono una rappresentazione forte dell’immagine della singola azienda, confusa come è tra le altre, e per di più costringono ad un linguaggio visivo uniforme, secondo la logica dello stand, del box seriale.
Nasce così l’esigenza di realizzare padiglioni esclusivi per certe aziende o enti, costruzioni provvisorie, destinate a durare solo il tempo dell’affitto dell’area. È grazie a questa metamorfosi se nel corso degli anni sono state realizzate opere di grande qualità: alcune conservate come il padiglione ex Enel di Salmoiraghi, il Palazzo del Mezzogiorno di Pietro Maria Favia, il padiglione dell’Iri di Costantino Dardi e il centro direzionale di Tonino Cirielli; altri demoliti come per esempio il padiglione della Sme di Vittorio Chiaia e Massimo Napolitano e i due padiglioni dell’Ina, entrambi firmati da Franco Albini.
Dunque in quella edizione del 1934 c’è spazio per l’architettura e per sperimentare nuove tecniche costruttive: uno spazio subito occupato dal giovane architetto Marino Lopopolo (si era laureato solo due anni prima, a Napoli), che realizza ben quattro padiglioni: quello del Mare, quello del cementificio Isonzo, la trasformazione dello spazio della Birra Raffo e, in collaborazione con Saverio Dioguardi, il padiglione del Banco di Napoli. Altri ne realizzerà nelle edizioni successive (la Casa coloniale tipo per l’Africa Orientale Italiana, il padiglione della radio, quello del Monopolio delle banane e quello dell’azienda barese Larocca). Il progettista preferito dal regime gode certo di qualche vantaggio: è così organico al partito fascista che a lui viene affidata la progettazione del palco costruito sugli scogli, davanti all’ingresso della Fiera, sul quale in quel fatidico settembre del ’34 salirà Benito Mussolini per il discorso inaugurale della Campionaria.
Ma a Lopopolo viene dato quello stesso anno un incarico ben più vasto: disegnare l’ampliamento del quartiere fieristico, una estensione della superficie che segna anche una svolta urbanistica: la Fiera esce dal recinto «naturale» della penisola di San Cataldo e punta diritto verso l’area di Marisabella, intuendo il declino inarrestabile della zona industriale ottocentesca sorta a ridosso del porto. In effetti la Fiera della svolta è la rappresentazione concreta del passaggio che vive la città: da una economia industriale legata alla produzione agricola dell’entroterra ad un terziario avanzato per il quale si concentrano gli investimenti governativi. Vien da chiedersi oggi quale progetto urbanistico e architettonico sia sotteso alla attuale metamorfosi della Fiera, che va facendosi per pezzi e episodi con tutta l’aria di ignorare un disegno unitario e meno che mai di aspirare ad essere metafora di una città che cambia con consapevolezza.
Il piano regolatore per l’ampliamento del quartiere fieristico impegnerà per due anni Lopopolo, in collaborazione con l’ingegnere Carlo Motti: l’area è attraversata da un lungo, ampio viale che termina in una esedra: è l’ingresso Orientale destinato a diventare la porta principale della Fiera. Una porta sulla quale Marino Lopopolo pianta quattro pilastri di acciaio e vetro traslucido, illuminati dall’interno: quelli che ancora oggi vediamo, sia pure malandati, e che all’epoca dovevano fare un certo effetto. In occasione del recente restauro del Palazzo del Mezzogiorno, che comportava anche una sistemazione dell’area circostante, l’architetto Mauro Saito ha cercato documenti che attestassero chi fosse l’autore di quel portale, finendo per riconoscerlo in Saverio Dioguardi (che nel concorso per l’ingresso monumentale aveva presentato un disegno pieno di colonne, capitelli e figure leonine). L’attribuzione ci aveva lasciati perplessi: ora possiamo dire – carte alla mano – che la «porta» di luce è invenzione di Marino Lopopolo, frutto di una ricerca attenta sulle steli e le colonne pubblicitarie e sui cosiddetti «portali simbolici di collegamento», di cui restano i disegni conservati nel suo archivio e che abbiamo avuto la fortuna di poter visionare.
di NICOLA SIGNORILE
(pubblicato oggi su “La Gazzetta del Mezzogiorno”)