
Tra pietre fasciste e razionalismo vinse la retorica _ Anni Trenta: demolire o salvare?
Il Palazzo delle Poste in piazza Cesare Battisti, costruito negli anni Trenta, va demolito? E l’ingresso monumentale della Fiera del Levante? E l’Albergo delle Nazioni? Da radere al suolo perché simboli del regime fascista oppure da tutelare in quanto beni culturali, parte de patrimonio artistico della città e della nazione?
Nella polemica innestata nei giorni scorsi sulle parole falsamente attribuite alla presidente della Camera dei Deputati, Laura Boldrini, ci sono cascati in molti, compreso un veterano come Vittorio Gregotti. Non è che siano diventati tutti ingenui, all’improvviso. Piuttosto, la menzogna e il travisamento hanno riattizzato la brace del giudizio sul fascismo attraverso l’architettura realizzata durante il ventennio della dittatura in Italia. E se Gregotti si è limitato a ricordare come quelle architetture siano parte della storia e quindi non le si può demolire (cosa che la Boldrini ha smentito di aver mai detto), ad altri non è parso vero di poter proclamare tutto il proprio entusiasmo per quelle costruzioni e per il regime che le ha prodotte.
Anche a Bari, naturalmente, sono rispuntati puntuali i tifosi degli anni Trenta, pronti ad esaltare la magnificenza di quelle costruzioni, specie se messe a paragone con gli edifici dei decenni successivi. Non c’è nulla di nuovo e purtroppo il dilagare della «ideologia della Bellezza» comprime lo spirito critico. E allora cerchiamo di rimettere le cose in ordine, o perlomeno di volgere indietro lo sguardo. La storiografia e la critica sulla architettura realizzata durante il fascismo, soprattutto quella pubblica, ha sofferto fino agli anni ’70 per il prevalere della condanna politica della dittatura sulla analisi puntuale e la stima del valore tecnico e artistico delle opere in sé. Ma è da almeno quarant’anni che la cultura architettonica italiana studia e reclama la tutela di quei «monumenti», pur considerando il pesante carico simbolico che esprimevano e talvolta esprimono ancora. Fra i tanti che a Bari hanno studiato gli intrecci tra tecnica, politica ed economia in quel periodo, ricordiamo Enrica Di Ciommo, Angela Colonna e soprattutto Mauro Scionti e Arturo Cucciolla, autore del saggio più recente ed aggiornato, «Vecchie città / Città nuove» (Dedalo ed.), dedicato alla figura dell’architetto Concezio Petrucci. La ricerca scientifica, tuttavia, non ha ancora fatto breccia nella dura scorza dei luoghi comuni ed anzi alla esaltazione di un presunto «primato» barese ha concorso la cosiddetta Scuola di Bari del Politecnico che – sotto la guida di Claudio D’Amato – ha riletto la architettura italiana del Ventennio attraverso il prisma del muro e della pietra, contrapposto al telaio e al cemento armato, tecniche costruttive tipiche del Razionalismo. Ricordiamo la mostra «Città di pietra» realizzata nell’ambito della Biennale di Venezia nel 2006.
Si è ripetuta così, a distanza di decenni, quella contrapposizione teorica tra razionalisti e non che aveva attraversato tutto il fascismo, organizzata addirittura in schieramenti ostili, da una parte il Miar (Movimento italiano per l’architettura razionale) e dall’altra il Rami (Raggruppamento architetti moderni italiani), al quale aveva aderito anche Petrucci. E già questo basterebbe a dimostrare quanto sia sbagliato parlare di «Architettura fascista». D’altronde non si può dire che a Bari il Razionalismo abbia attecchito. Lo prova la conclusione del concorso indetto nel 1932 per il palazzo del Provveditorato ai Lavori Pubblici (oggi è la sede della Presidenza della Regione Puglia), sul lungomare Nazario Sauro: vinto da Carlo Vannoni con la torre di pietra e perso da Giuseppe Samonà con le ampie superfici vetrate, secondo i criteri del Bauhaus. Se si escludono il Circolo Barion (una prova futurista dell’eclettico Saverio Dioguardi, 1934) e i tentativi di rinnovamento tipologico di Pietro Maria Favia e di sperimentazione di Marino Lopopolo, l’architettura barese di quegli anni si tiene saldamente ancorata alla misura muraria, che ben risponde alle esigenze di comunicazione politica del regime: la città-fortilizio, il presidio militare schierato sull’Adriatico contro il nemico. Anche le architetture civili, come il liceo Orazio Flacco (di Petrucci, 1932) o il Policlinico (di Giulio Marcovigi, 1933) devono apparire come caserme. E se alla caduta del fascismo furono demoliti la testa del duce sull’altorilievo e le pinne dei tre fasci littori che costituiscono la torre centrale del prospetto, la Caserma della Milizia volontaria (oggi c’è la brigata Pinerolo) progettata nel 1933 da Dioguardi sul lungomare Vittorio Veneto non ha certo perduto il suo carico simbolico.
di NICOLA SIGNORILE
(pubblicato oggi su “La Gazzetta del Mezzogiorno”)