PIAZZA GRANDE di Nicola Signorile | 31_05_2017

Lopopolo, Grattacielo piazza Ferrarese, 1949

La voglia matta dei grattacieli in riva al mare _ I progetti rimasti nel cassetto 

Grattacielo: una voglia repressa per i baresi che si sono dovuti accontentare di immaginarlo per anni in quel palazzo appena più alto della media, ad angolo tra il corso Vittorio Emanuele e il corso Cavour, che i cittadini più maturi ricordano appunto come il «grattacielo della Motta». Sulla sommità si accedeva una insegna al neon della compagnia di bandiera dei panettoni. Quella pubblicità gigantesca rimandava al caffè e al ristorante che occupavano per interi il piano terra e il primo piano piano, pavimentati con piastrelle azzurre realizzate a Bari, dalla Ceramica Levante, in un forno elettrico di via De Nicolò: di un colore talmente bello che ne vollero uguali per gli storici locali della Motta in Galleria, a Milano.

Il palazzo, alto dodici piani, fu costruito alla fine degli anni Cinquanta sulle macerie del Palazzo Barbone che di piani ne aveva appena due. E così andò perduto, insieme alla memoria del primo edificio del borgo murattiano, anche l’anello prezioso che secondo la leggenda Gioacchino Murat lasciò cadere nella malta della sua prima pietra. Gesto benaugurante ma inefficace: al suo arrivo a Bari l’architetto e urbanista Marcello Piacentini puntò proprio su quell’angolo strategico per «modernizzare» la città che già si raccontava di essere la «Milano del Sud» e quindi desiderava i suoi grattacieli.

L’architetto Saverio Dioguardi accarezzò subito l’idea di cui a noi resta oggi solo un suo schizzo (datato 1956) che però dà la misura dell’impresa: radere a suolo quattro isolati del Murattiano – tra corso Vittorio Emanuele e via Abate Gimma – e su questi costruire un grande basamento e al centro di esso elevare una torre che – nell’abbozzo compositivo – ricorda il complesso di San Ferdinando (portato a termine solo vent’anni prima).

Non se ne fece nulla, probabilmente per la difficoltà di gestire una proprietà privata frammentata e l’assenza di soggetti finanziari all’altezza della situazione. Più facile sarebbe stato per un ente pubblico, magari intervenendo su aree demaniali. È ciò a cui aveva pensato, già nel 1949, l’architetto Marino Lopopolo progettando un grattacielo all’ingresso di Bari vecchia, previa demolizione del mercato del pesce, del mercato delle carni (dove oggi c’è la Sala Murat) e del teatro Margherita. Il progetto si arrestò per la ferma opposizione di Pietro Maria Favia, l’architetto a capo dell’ufficio urbanistico del Comune di Bari, il quale ricorse ad un disegno che desse impressione dell’impatto paesaggistico. Ma la simulazione irritò Lopopolo, che rispose con un altro disegno per smentire la grafica «tendenziosa» di Favia: «Ecco come apparirà il complesso edilizio del grattacielo centro affari su piazza del Ferrarese – si legge nella didascalia allo schizzo – in esatta prospettiva e in giusta proporzione e rapporto con la retrostante scena del vecchio abitato, visto dall’angolo del giardino retrostante la Camera di Commercio. A rettifica di una visione dello stesso complesso, non rispondente alla realtà».

Scintille, dunque, fra due architetti di grande valore e, sullo sfondo, la sorte di Bari vecchia: dalla proposta di Lopopolo – raccolta nel piano regolatore di Piacentini e Calza Bini – nascerà il concorso nazionale del 1954 vinto da Vittorio Chiaia e Massimo Napolitano (con un lusinghiero secondo posto a Onofrio Mangini, pressoché esordiente). E anche i grattacieli di quel concorso rimasero nei disegni e nei plastici: desideri frustrati di «una città che sale», potremmo dire parafrasando il titolo di un celebre dipinto di Umberto Boccioni.

Oggi i grattacieli tornano di moda, da Roma a Milano, anche nella subdola messinscena pseudoecologica del «bosco verticale» progettato da Stefano Boeri. Segno dei tempi e della crisi che attraversa la cultura urbana. È un fenomeno regressivo? Oppure è l’affermazione – come sostiene Salvatore Settis – del pensiero unico di un modello di sviluppo «incentrato su una megalopoli “orizzontale” con cluster di architetture “verticalizzate” e con segregazioni interne basate sul censo»?

Conviene guardarsi dal rischio di scambiare per densificazione della città la politica dei «giganti». Nelle lezioni che ha tenuto agli studenti di architettura dell’Università della Svizzera italiana a Mendrisio e appena pubblicate nel volume «Architettura e democrazia» (Einaudi, pp. 164, euro 12) Settis chiama in causa la responsabilità civile e culturale: «La retorica delle altezze – scrive – trapianta la competitività dei mercati finanziari nella città e vi radica una visione muscolare e autoritaria dell’architettura, in cui gli alti la vincono sui bassi, i ricchi sui poveri, il nuovo sul vecchio. Monumenti di un prestigio che si pretende immateriale, questi neograttacieli tracciano nel cuore della città un nuovo confine, un confine “verticale” (…) in nome di un’astratta bellezza. In questa mercificazione dello spazio anche la città storica può ridursi a “veduta”».

di NICOLA SIGNORILE

(pubblicato oggi su “La Gazzetta del Mezzogiorno”)

 

 

 

 

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