PIAZZA GRANDE di Nicola Signorile | 09_11_2016

alloggi IACP, Japigia

«Malbor sono io. Non toccate quella facciata»_ Chiaia & Napolitano a Japigia 

«Le facciate del palazzo stanno bene così come stanno. Non abbiamo niente da nascondere e cancellare», dice un uomo e poi scompare, lasciando il fotografo solo, sullo sfondo di quelle case che per tutti, nel quartiere, sono le «case della Marlboro» a causa o in virtù di quella decorazione a triangoli rossi e indaco sulla facciata. Negli anni del contrabbando che occupava di banchetti ogni angolo di strada, quelle geometrie non potevano che evocare un pacchetto di sigarette: effetto di quel misto di cinismo e autoironia che spingeva la gente del luogo a dire di sé: «Io abito al Giappone», intendendo Japigia, tanto era lontano il nuovo, popoloso quartiere dal centro cittadino.

Francesco D’Agostino, fotografo di strada, conosce Japigia come le sue tasche e ha dedicato alcuni scatti alle facciate dei palazzi dipinte di recente a colori vivaci, qui sfumature di verde, lì gradazioni di arancione.  «Sono stato  avvicinato – racconta D’Agostino – da un tipo, piuttosto anziano, che a bruciapelo mi chiede (mi intima, direi): «Ce t’ammannat’ l’Istitut’?». L’istituto sarebbe lo Iacp, la bestia nera per le migliaia di famiglie che abitano da queste parti, in questi enormi casermoni. Alla mia risposta negativa, questi comincia ad inveire contro le malefatte dell’Istituto, responsabile, a suo dire, del degrado e dell’abbandono, nonché dell’abusivismo e dell’inciviltà dilagante nella zona. “A essere danneggiati siamo solo noi, cittadini onesti di Japigia – dice – e poi con i soldi che vogliono spendere a verniciare la facciata della Malbor, perché non fanno qualche ritrovo per i pensionati, che qui siamo molti senza un punto di ritrovo, neanche per giocare a carte? Dite all’Istituto che a noi non ce ne importa niente del nome che ci portiamo appresso qui nel quartiere: le Malbor. Le facciate del palazzo stanno bene così come stanno”. E l’uomo, così come era apparso, all’improvviso è scomparso dalla mia vista».
L’Arca – che ha preso il posto dello Iacp – smentisce che sia prevista una nuova colorazione delle facciate di quell’edificio e degli altri gemelli. I palazzi di via Caduti Partigiani, dipinti di recente, sono invece alloggi di proprietà del Comune ed il relativo progetto è stato predisposto dall’Amministrazione comunale. Una iniziativa che ricorda quel che fece a partire dal 2010 Edi Rama, il premier albanese, quando era sindaco di Tirana, con le case a secco e molta fantasia.
«Tutti quelli che osservano da lontano l’iniziativa della colorazione delle facciate dei palazzi  – disse Rama – la ritengono un’operazione di cosmesi. Una ristrutturazione come tante, magari solo un po’ più eccentrica. Non è assolutamente così. Questa interpretazione è completamente sbagliata. Io ho compiuto un’operazione politica. Volevo svegliare i cervelli della gente di Tirana, dare una scossa a tutta la comunità».
Da allora molte grigie periferie si sono colorate, in Italia, in Francia o in Germania. Anche se non basta una mano di vernice a cambiare la vita della gente, soprattutto quando nella scala dei bisogni la felicità è, per esempio, un posto in cui gli anziani possano giocare a carte. Ma le parole raccolte dal fotografo D’Agostino ci dicono qualcos’altro. Ci rivelano che l’identità dei luoghi e il senso di appartenenza percorrono sentieri imprevisti che confermano la capacità della buona architettura di essere percepita, se non riconosciuta da chi la abita, a distanza di decenni.
Stiamo parlando infatti degli alloggi Iacp che furono progettati alba degli anni Settanta dagli architetti Vittorio Chiaia e Massimo Napolitano, nell’ambito di uno dei tre piani della 167, varati nel 1965: Cep, Poggiofranco e Japigia. In quest’ultimo caso, con il progetto urbanistico firmato da Vittorio Chiaia, Domenico De Salvia e Giovanni Fuzio su una superficie di 236 ettari. Come hanno notato Marcello Petrignani e Franco Porsia nel saggio «Bari» (Laterza, 1983) «per la commistione di vari interventi pubblici (Iacp, Ises, Gescal, oltre ai consorzi delle cooperative) Japigia diverrà un quartiere operaio e piccolo-borghese».
La celebre coppia di architetti introdusse nell’edilizia popolare gli stessi elementi e procedure della prefabbricazione che avrebbe applicato in un edificio di lusso: il palazzo realizzato negli stessi anni dalla impresa Dioguardi all’angolo tra via Calefati e via Quintino Sella. Mentre nel quartiere murattiano le facciate sono articolate in logge e balconi, a Japigia scompare ogni sbalzo, le aperture sono tutte loggiate e se questa scelta compositiva ha aumentato l’effetto della «scatola» come dicono i profani o del «puro volume» come dicono gli architetti, pure ha garantito agli edifici popolari di non essere deturpati dalle verande più o meno abusive.

di NICOLA SIGNORILE

(pubblicato oggi su “La Gazzetta del Mezzogiorno”)

 

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