PIAZZA GRANDE di Nicola Signorile | 27_01_2016

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Villaggio Trieste e nuovi profughi. La storia fa il bis _ Gli immigrati e la città ostile

«La popolazione barese era incattivita. Ce l’avevano con noi perché avevamo il diritto alla casa e al posto di lavoro. Ma non volevamo togliere niente a nessuno», ricorda Giorgio Pasquale Germinario. «Abbiamo sofferto le pene dell’Inferno. Prima la guerra, poi l’esodo. Le nostre sono cicatrici che non si rimarginano». Nella parole del signor Germinario c’è tutta l’amarezza della condizione del profugo. Un profugo in patria, come erano gli italiani scacciati dall’Istria, dalla Dalmazia, dalla Grecia e dalle ex colonie africane alla fine della Seconda Guerra Mondiale.

Quei profughi che hanno popolato per circa trent’anni il Villaggio Trieste – costruito per loro, vicino allo Stadio della Vittoria – e che hanno coltivato un senso di comunità proprio per difendersi dalla ostile città. Memorie, relazioni e racconti trasfusi in un libro collettivo, intitolato «Villaggio Trieste. Bari, 1956: una terra di esuli in patria?» e pubblicato da LB edizioni. In questo volume abbiamo letto la testimonianza di Germinario  (nato a Patrasso, nel 1968 fondò l’Associazione Nazionale Profughi e rimpatriati dall’estero) e non è l’unica di questo tenore. Sentiamo cosa dice, per esempio, un altro protagonista di quella comunità, l’avvocato Antonio Scagliarini: «La cittadinanza era chiusa nei nostri riguardi. Ancora oggi, nonostante siano trascorsi molti anni, continuano a vederci da lontano e con diffidenza. Ero impiegato all’Inail e mi capitava spesso di subire affronti e provocazioni di ogni tipo».

Per una coincidenza davvero curiosa (ma a ben vedere forse il caso qui c’entra assai meno di quanto si immagini), nella stessa condizione di diffidente emarginazione se non  proprio di ostilità verso lo «straniero» si troveranno quei duecento profughi che andranno ad abitare il villaggio di prefabbricati (oops, scusate: «moduli abitativi») da realizzare proprio lì, a poca distanza dal Villaggio Trieste. È da lì che si levano in questi giorni le parole di dissenso e di protesta dei residenti riportate da alcuni consiglieri comunali di centrodestra.

In effetti, gli attuali residenti del Villaggio Trieste non sono più i profughi di allora né le loro famiglie che pure, nel ‘91, prestarono immediato soccorso e accoglienza agli albanesi sbarcati dal Vlora. Gli appartamenti costruiti dallo Iacp fra il 1953 e il 1956 furono riscattati negli anni Settanta dagli assegnatari e da questi poi quasi tutti rivenduti. Sicché oggi altre famiglie abitano quelle 27 palazzine e ben poche hanno memoria del luogo in cui si sono insediate né di chi li ha preceduti. «I baresi si sono impossessati del nostro villaggio», dice chi è rimasto.

La  vicenda del Villaggio Trieste presenta, in ogni caso, altre analogie con il villaggio di prefabbricati che il Comune sta per realizzare e che può essere utile mettere in luce.

Così come i moduli abitativi sono destinati ad ospitare i rifugiati per ragioni politiche o umanitarie, che per oltre un anno sono stati accampati nel fatiscente capannone ex Set di via Napoli, così il Villaggio Trieste fu costruito per dare una casa vera alle famiglie dei profughi d’oltremare che, arrivate ad ondate dopo il 1947,  furono «confinate» per anni nelle baracche dell’ex campo di concentramento di Torre Tresca.

Seconda analogia. Il villaggio Trieste – progettato dallo Iacp sotto la direzione dell’ingegnere De Pascale – fu realizzato con finanziamenti statali, attraverso la legge 137 del 1952, e comunque nella prospettiva di una collocazione transitoria. Anche i «moduli abitativi» saranno allestiti grazie ad un finanziamento dello Stato per la cosiddetta «seconda accoglienza», e quindi con carattere di provvisorietà.

Terza analogia: così come per il villaggio odierno si è resa necessaria una variante al piano regolatore, anche per il Villaggio Trieste, invocando le ragioni di pubblica utilità e la convenienza di suoli demaniali, si dovette adottare una variante urbanistica per modificare la destinazione di quei suoli, che il piano regolatore di Piacentini e Calza Bini comprendeva in un’ampia area destinata agli impianti sportivi e al tempo libero, previsione confermata del resto nel piano regolatore vigente, quello di Quaroni.

Quarta analogia. Possiamo già prevedere come andrà a finire, perché si stanno ripetendo esattamente gli stessi errori di allora. Nascerà un villaggio di emarginati, di stranieri da temere o almeno da tenere a distanza, mentre oggi come allora la strada più efficace alla integrazione è quella che passa attraverso alloggi diffusi in città.

Ma non tutto il male viene per nuocere: superata l’emergenza e la «seconda accoglienza», a conti fatti un altro pezzo di territorio urbano sarà stato sottratto ai servizi e consegnato alla residenza. Non è a questo, in fondo, che si punta con i crediti edilizi e l’idea di trasferire volumetrie da Loseto a San Cataldo?

di NICOLA SIGNORILE

(pubblicato oggi su “La Gazzetta del Mezzogiorno”)

 

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