I profumi di Pitigrilli e la guerra segreta del cemento armato _ Albergo Diurno, il decò di Dioguardi
Il fascio littorio sull’ingresso dell’albergo diurno potrebbe apparire irriguardoso: meglio di no, piuttosto una sfera di pietra. Ma non è questo l’unico ostacolo «politico» che incontrò il progetto di Saverio Dioguardi per quell’architettura ipogea che sopravvive solo nella memoria dei baresi più attempati: l’Albergo Diurno di corso Vittorio Emanuele. Dopo il «restauro» dello stemma civico che campeggiava sulla scalinata, recuperato in una aiuola per iniziativa del capo di gabinetto del sindaco, Vito Leccese, l’assessore alle Culture Silvio Maselli si è arrischiato nella spericolata ipotesi di un recupero dei locali per destinarli a qualcosa di simile ad un caffè letterario. Ma del Diurno non rimane ormai che la balaustra in pietra e marmo, parcheggiata nel piazzale antistante lo stadio della Vittoria. Tutto il resto è andato distrutto nel 2002, con l’approvazione della Soprintendenza ai Beni architettonici e fra le flebili proteste dell’opposizione. Fu la giunta Di Cagno Abbrescia a riempire di pietre e macerie le stanze e il salone del Diurno, dopo un fallimentare tentativo di gestione privata, seguito ad una costosa ristrutturazione.
Che un tempo fosse stato un bel posto, non c’è dubbio: «Non un asilo di comodità è stato eretto sotto il viale del Corso ma un angolo di Paradiso in cui una celeste sinfonia di colori e di delizie può assecondare le esigenze di un pubblico vario ed eterogeneo». Così scrive il cronista della Gazzetta riferendo della inaugurazione, una delle tante avvenute il 28 gennaio 1929, giornata di festa del regime fascista. E infatti ci sono tutti – federali e ufficiali e gran dame e monsignori – a magnificare l’impresa di Oreste Lauretti e dei suoi soci (già proprietari e gestori del Diurno di piazza Moro) che si sono affidati alla matita di Saverio Dioguardi, l’architetto più noto e più potente in città.
Dioguardi, sensibile al gusto del pubblico, allestisce i locali con sicura adesione allo stile Decò, decadente rappresentazione del «novismo», per creare un’atmosfera più vicina al mondo borghese di Pitigrilli che non a quello dannunziano. Una doppia balaustra semicircolare di pietra calcarea con pannelli di marmo verdone dolomitico: sontuoso ingresso che attraverso una doppia rampa di gradini portava ai locali sotterranei. E si apriva un mondo elegante, lì sotto, con le decorazioni di Marcello Prayer. Nella luce soffusa che proveniva dal soffitto vetrato, c’erano i bagni, le docce, gli atelier del coiffeur pour dame e del figaro per i signori, la profumeria in subappalto alla Rinascente. C’era la manicure e il callista e c’era il lustrascarpe. Si aspettava conversando o leggendo il giornale, seduti sulle poltrone semoventi realizzate dall’ebanista Francesco Rega, nel salone centrale dominato dalla cassiera e, alle sue spalle, dal listino prezzi: doccia con o senza asciugamano. Anche il sapone era un extra, nel prezzario. Ma i clienti lo sceglievano volentieri: andare al diurno era una buona abitudine per la borghesia barese che sentiva ormai tutto il disagio delle abitazioni del Murattiano, assai spesso prive di bagni, ancorché di recente costruzione.
Nulla a che fare, nell’estetica, con il liberty (che i baresi vedono dappertutto), anzi lo spazio suggerisce al cronista addirittura una impennata futurista per questa descrizione: «Aria calda, vapore acqueo, fluidi elettrici, ronzii di motori, lievi sibili di sirene prendono sostanza di seduzione comandati da una sconosciuta potenza che ha appreso nelle metropoli tentacolari l’arte di confortare l’umanità nei suoi bisogni quotidiani, a poco prezzo e in una cerchia di grazia e di ricchezza».
Ma dietro la propaganda di regime si nasconde uno scontro di potere combattuto senza esclusione di colpi. Grazie alle ricerche di Mauro Scionti sappiamo che, a lavori già avviati, il 6 marzo 1928 il segretario del Sindacato Fascista Ingegneri, Vincenzo Rizzi (l’autore del futuro grattacielo Motta, all’angolo di corso Vittorio Emanuele con corso Cavour) aveva contestato all’architetto Dioguardi la direzione lavori di una struttura in cui si faceva largo uso del cemento armato. Il giorno dopo Dioguardi si presenta davanti alla «commissione per i cementi armati» avvertendo che se la sua «difesa» non fosse stata accolta avrebbe fatto pressioni sul prefetto e sul sindacato nazionale. A risolvere l’impasse provvide il costruttore, Vito Ricco, il quale affidò la direzione dei lavori all’ingegnere De Paolis, dell’ufficio tecnico comunale. Un incarico privato ad un funzionario pubblico: procedura legittima per quanto discutibile, al pari degli incarichi professionali ai dipendenti pubblici, specie quando lavorano per uffici cui spetta il controllo e la tutela, dal Comune alla Soprintendenza.
di NICOLA SIGNORILE
(pubblicato mercoledì 14|10|2015 su “La Gazzetta del Mezzogiorno”)
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