
No al restauro dell’architettura repubblicana _ Chiaia&Napolitano, occasione persa
«Presidente, faccia qualcosa per il restauro del Moderno!» L’accorata richiesta è stata rivolta, la settimana scorsa, a Giorgio Napolitano mentre inaugurava con due mesi d’anticipo la riapertura del palazzo ex Sgpe, di via Crisanzio, ristrutturato per iniziativa dell’Università di Bari che l’ha acquistato dall’Enel.
Un appello lanciato da tre architetti – Antonella Calderazzi, Beppe Fragasso e Mauro Galantino – e motivato proprio dalla vicenda dell’edificio progettato fra il 1957 e il 1958 dagli architetti Vittorio Chiaia e Massimo Napolitano (fratello del capo dello stato). È proprio Antonella Calderazzi a informare il presidente che due anni fa la Soprintendenza ai Beni architettonici rispose picche alla richiesta di sottoporre l’edificio alla tutela dello Stato perché era «troppo moderno». Delusione dei tanti – singoli e associazioni, molti esponenti del mondo accademico italiano – che avevano sottoscritto una petizione per il vincolo di tutela. Richiesta che, peraltro, sembrò infastidire il rettore dell’epoca, Corrado Petrocelli, certo della bontà del progetto elaborato dagli uffici dell’ateneo e forse preoccupato che si potessero allungare i tempi della ristrutturazione. La Soprintendenza non negava il valore dell’edificio o l’interesse pubblico alla conservazione (anche se i tecnici incaricati dell’istruttoria mostrarono una certa freddezza) ma il problema era soltanto… anagrafico: non erano ancora trascorsi i settant’anni che la legge richiede per considerare bene culturale un immobile.
In verità l’edificio degli «americani di Bari» (così li definì Bruno Zevi) che debuttavano nell’uso del «courtain wall» è stato una vittima precoce della manomissione del Codice dei Beni culturali compiuta dal governo Berlusconi attraverso il cosiddetto «Decreto Sviluppo», approvato nel maggio del 2011 (un mese prima dell’appello). Anzi è bastato il solo comma 16 dell’articolo 4 ad allontanare di ulteriori vent’anni quel limite alla salvaguardia del patrimonio culturale che fino ad allora era fissato a cinquant’anni: una soglia introdotta per la prima volta con la legge Rosadi, nel 1909, confermata nel ‘39 con la legge Bottai e rispettata nel Codice dei Beni culturali del 2004.
È chiarissimo che spostare indietro le lancette del tempo fino agli anni ‘40 significa escludere dalla tutela dello Stato l’intera architettura contemporanea, tutte le opere significative realizzate dopo la guerra. In una parola – e ci sarà pure un senso in questo – l’architettura della Repubblica.
Al presidente Napolitano i tre architetti non hanno chiesto una legge apposita, ma di prendere a cuore la questione. Come? La maniera resta vaga e allora vogliamo suggerire non al presidente ma al governo, ed esattamente al ministro della cultura Massimo Bray (era presente anch’egli alla giornata barese) un atto semplice semplice: abrogare il comma 16 dell’articolo 4 del Decreto Sviluppo, per riportare tutto com’era prima della deriva neoliberista, quando eravamo un po’ meno distanti dagli altri paesi europei. Né la Francia con il Code du Patrimoine (è del 2010, ma recepisce una legge del 1913) né la Germania con le leggi dei singoli Laender sul Denkmalschutz prevedono limiti di tempo per il riconoscimento del bene culturale. In Inghilterra poi, la tutela dell’architettura è direttamente collegata alla normativa urbanistica e regolata dal Planning (Listed Buildings and Conservation Areas) Act 1990. Lì anche gli edifici con meno di 30 anni sono tutelati se sono di qualità eccezionale e minacciati di trasformazioni o demolizioni.
Il palazzo di Chiaia e Napolitano avrebbe avuto migliore sorte se sottoposto alla tutela dello Stato? Chi può saperlo! Ma almeno non staremmo qui a fare i conti con l’equivoco di una ristrutturazione scambiata da qualcuno per un restauro. Come una grottesca zucca di Halloween, il palazzo è stato completamente svuotato all’interno per ricavare uffici (ma non le aule per gli studenti), lasciando un involucro esterno, malinconica memoria di quel che fu un’architettura totale, interamente disegnata dalle strutture fino agli arredi. Un restauro avrebbe interpretato l’edificio per ripartire gli spazi, o almeno evitato che i controssoffitti finissero per oscurare la luce delle finestre. Un restauro avrebbe ricostruito luminosità e spazialità della hall di ingresso al piano rialzato, rimuovendo i rivestimenti in travertino applicati nel 2001. Un restauro avrebbe forse raggiunto l’incredibile obiettivo di rimettere a posto se non altro gli infissi d’alluminio di quelle sette finestre en longuer sul basamento sospeso all’angolo tra via Crisanzio e via Suppa.
Insomma, poteva essere questa l’occasione per un restauro del contemporaneo, anzi di un prototipo del «Moderno Murattiano». Ma ancora una volta hanno vinto gli immobiliaristi.
NICOLA SIGNORILE