PIAZZA GRANDE di Nicola Signorile | 02_10_2013

Il palazzo che fu sede
Il palazzo che fu sede della filiale barese della Banca Commerciale Italiana

Per la banca nuova meglio progettare un intero isolato _ In vendita la Comit di Dioguardi

È in vendita il palazzo che fu sede della filiale barese della Banca Commerciale Italiana, in via Abate Gimma. Il gruppo Intesa San Paolo, dopo la divisione «neoborbonica» dei suoi sportelli fra un marchio nordista (il San Paolo) e un marchio sudista (il Banco di Napoli) non ha più interesse per un immobile tanto rappresentativo ma oramai superfluo per la propria attività creditizia.

Da chi lo acquisterà e per farne cosa dipende ora il destino di un angolo del quartiere murattiano e la conservazione o la perdita di un pezzo di storia cittadina. È una curiosità che coltiviamo senza sentimenti di nostalgia, convinti che una città che non si trasforma è una città morta. Tuttavia non è inutile l’esercizio della memoria, se poi – come in questo caso  – oltre a farci riconoscere l’opera di un maestro dell’architettura locale ci induce a considerazioni sulle scelte urbanistiche dell’immediato futuro: dal vincolo paesaggistico diffuso al nuovo piano regolatore.

Nella brochure con cui promuove la vendita dei 1.600mq circa, la Pm&Partners non fa alcun cenno – pur fra tanti dettagli tecnici – alla storia dell’immobile e nemmeno al suo autore. Sopperiamo alla mancanza. Il palazzo della Banca Commerciale fu progettato e realizzato dall’architetto-imprenditore Saverio Dioguardi tra il 1947 e il 1950. In via Abate Gimma c’era già una filiale della Comit che doveva essere abbattuta e ricostruita, come altre sedi in Italia, secondo un piano di ricostruzione postbellica dell’immagine pubblica della banca, che era stata nazionalizzata da Mussolini nel ‘36 ma che Raffaele Mattioli aveva trasformato in uno dei maggiori centri dell’antifascismo clandestino. Mattioli si affida a Dioguardi, che è appena rientrato dalla prigionia di guerra in Kenya. Il primo progetto è per la filiale di Foggia, in via Duomo, ed è del 1945. Inizia una proficua collaborazione. Due anni dopo Dioguardi si mette a lavorare per la sede barese e poi gli sarà affidata la progettazione delle sedi di Taranto (1956), di  Barletta (1958) e, non realizzata, di quella di Cosenza.

Prima di arrivare all’immagine definitiva, il progetto barese attraversa varie trasformazioni. Il disegno vuol prendere le distanze dai dettami dello stile piacentiniano del regime fascista, ma lo slancio di autonomia viene frenato dai soliti bacchettoni della commissione edilizia del Comune che pretendono l’osservanza delle regole della simmetria. Ciò nonostante, emerge la densità compositiva. Come ha notato lo storico Fabio Mangone, Saverio Dioguardi «punta su un sobrio e lineare classicismo atemporale, con poche concessioni tanto alle citazioni archeologiche quanto alle nuove mode». Il basamento a doppia altezza è rivestito di una pietra dolomitica scura e porosa, incoerente come un travertino e dura come un granito. L’ingresso è scandito da pilastri, raddoppiati sul portone di accesso, conclusi in un severo e astratto capitello egizio. Una cura particolare è riservata all’interno, con i rivestimenti  e il pavimento in marmi diversi apparecchiati a grandi cerchi e quadrati e con i bassorilievi realizzati dallo scultore Franco Barbieri: è nel salone centrale che Dioguardi sembra confessare un debito di ammirazione verso il razionalismo arioso dei Libera e dei Moretti.

C’è poi un aspetto urbanistico, nella vicenda della Comit barese, che dovrebbe farci riflettere sul modo in cui affrontare il tema della demolizione e ricostruzione nel Murattiano ma anche e soprattutto nel quartiere Libertà. Saverio Dioguardi acquista, attraverso la ditta di cui è socio col fratello Giuseppe, gli immobili ottocenteschi confinanti con la banca per demolire e ricostruire tutto insieme l’isolato compreso tra via Abate Gimma, via Andrea da Bari, via Piccinni e via Roberto da Bari: «Per la prima volta nella Bari del dopoguerra – ricorda Mauro Scionti – si dimostrava la possibilità di un intervento unitario di comparto in un isolato del centro murattiano completamente acquistato dall’impresa». Rifare il Murattiano di sana pianta, ma isolato per isolato, era la strategia urbana di Dioguardi. Ci aveva già provato con successo realizzando il complesso di San Ferdinando, nel 1936. E ci riprova proprio nell’immediato dopoguerra progettando un intero isolato di piazza Umberto I, con portici all’esterno e galleria commerciale all’interno. Un disegno rimasto sulla carta, come pure nel cassetto rimase quella «visione di un grattacielo», che porta la data del 1952: immaginava di demolire ben quattro isolati del Murattiano su corso Vittorio Emanuele II e di ricostruirli come un unico basamento sul quale innalzare una torre.

Nemici di questa strategia di trasformazione urbana di qualità si sarebbero poi dimostrati Alberto Calza Bini e Marcello Piacentini,  asserviti alle pretese della piccola proprietà fondiaria nella formazione del loro sciagurato piano regolatore (1952). Quando arrivò  Quaroni, fu riesumato l’obbligo di assumere l’isolato come unità minima di sostituzione edilizia. Ma ormai era troppo tardi.

NICOLA SIGNORILE

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