PIAZZA GRANDE di Nicola Signorile | 24_07_2013

Acquerello del progetto di Carmela Agnelli
Acquerello del progetto di Carmela Agnelli

Teatro Radar, venti idee vent’anni dopo _ Venerdì in mostra a Monopoli

Come nelle pagine di Alexandre Dumas (il padre), si ritroveranno vent’anni dopo a rivivere un’avventura che è diventata quasi una mitologia: quella del concorso per il Radar di Monopoli. Gli architetti e gli ingegneri che parteciparono a quella gara, si incontrano venerdì prossimo, alle 19, nel castello di Monopoli, per l’inaugurazione della mostra dei progetti presentati al concorso internazionale di idee per un centro culturale. E che sono rimasti nei cassetti per vent’anni. Anzi chiusi e sigillati nelle buste, così come erano state recapitate, fino a cinque anni fa, quando la cocciutaggine dell’architetto Andrea Fiume (promotore di quella gara) ha avuto la meglio sulla forza dell’oblio.

Oggi il destino del cineteatro Radar e dell’ex albergo Savoia è chiaro: sta per diventare l’auditorium del Conservatorio «Nino Rota» e ci sembra questa una soluzione alla quale ha contribuito in qualche modo anche il concorso ibernato, rappresentando con le sue «idee secretate» una permanente alternativa alla strada della speculazione edilizia e immobiliare.

Al concorso parteciparono venti gruppi di progettisti, tutti pugliesi. Sulle ragioni del suo congelamento – esemplare della difficoltà di progettare opere pubbliche attraverso i concorsi, da queste parti – non è inutile discutere e in questa rubrica ce ne siamo già occupati quando fu deciso di aprire le buste, nel 2008. Fino ad allora si conoscevano soltanto alcuni fatti pubblici, come le dimissioni di due membri della giuria: Ferdinando Pinto (all’epoca gestore del teatro Petruzzelli) e l’architetto Paolo Portoghesi che lo aveva rimpiazzato qualche mese dopo. Il motivo delle clamorose dimissioni era l’inerzia della pubblica amministrazione che peraltro dominava numericamente nella giuria. Ma oggi – a carte scoperte – sappiamo che c’era di che sospettare.

Che il bando fosse fatto male, anzi malissimo era consapevole anche l’architetto Mauro Scionti, uno dei concorrenti, che addirittura nella relazione illustrativa scrive: «Un concorso, per di più palese e limitato alla professione regionale, a prima vista sembra voler volare basso negando quel confronto ampio e di proposte che da anni ha assunto nella nostra professione una dimensione europea se non mondiale». Ma Scionti riesce a vedere per paradosso anche in questo limite un pregio (o almeno uno scatto di provinciale orgoglio): «Ma proprio per questa dimensione europea della professione anche un concorso “regionale” offre garanzie di “elevata qualità”, fino a pochi anni fa impensabile».

In verità, a vedere oggi i progetti candidati si fa fatica a condividere l’ottimismo di Scionti. Le idee mostrano senz’altro le rughe e ci restituiscono gli stessi dilemmi di oggi circa il riuso di un edificio storico e per di più di rigida tipologia, quale è una sala di spettacolo. Da una parte i restauratori, dall’altra gli innovatori, fino alla totale demolizione e nuova costruzione (è la proposta degli archietti Davide Dioguardi e Damiano Mastronardi).

In maggioranza si conserva la destinazione teatrale (lo fanno Scionti, Ferraro, e Leonardo Lenoci) ma c’è chi pensa a cambiare decisamente la funzione in senso museale, a costo di pesanti demolizioni degli interni (Loredana Ficarelli) e anche del prospetto a Sud (Sebastiano Cimmarusti e il gruppo di Vito Labbate e Nico Berlen).  Non mancano proposte di valore, che arrivano fino ad oggi pressoché salve dalla decadenza delle mode. È il  caso del progetto del gruppo guidato dell’architetto Antonio Esposito che intreccia un mite, minimale linguaggio contemporaneo alla conservazione della preesistenza, cioè dell’architettura modernista dell’ingegner Giambattista Giannoccaro, realizzata negli anni Quaranta con gli occhi rivolti alla vicina esperienza barese di Concezio Petrucci (inevitabile il confronto con il liceo Orazio Flacco).

Ma c’è chi allora, vent’anni fa – e non sapremmo dire se in ritardo o in anticipo sui tempi – dichiarava senza mezze misure che il Radar non valeva nulla: «L’edificio è un malinteso creativo», scriveva l’architetto Carmela Agnelli nella sua relazione illustrativa. E spiegava: «Arcigno architettonicamente, impenetrabile visivamente, ambiguo strutturalmente, elefantiaco per poterlo camuffare». A queste condizioni, un restauro dell’esterno con innovazioni all’interno significherebbe solo «tramandare ai posteri il fantasma della vecchia progettazione».

Qualcuno venerdì a Monopoli, dinanzi a questa archeologia dell’architettura mai nata, potrebbe allora dire, come Aramis nel romanzo di Dumas: «Ah, caro D’Artagnan, noi fummo costretti a ingoiare anche l’ingratitudine dei grandi, lo sapete!».

NICOLA SIGNORILE

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