Nella Smart city tra furbetti e nuovi <citizen>_La città del futuro oggi in Fiera
Avranno meno di un’ora per dire chi sono e cosa vogliono fare. Stamattina allo Smau Bari, in Fiera, debutto in pubblico dell’associazione Smartcitizen. Il gruppo si è costituito l’anno scorso e finora ha avuto una vita limitata all’infosfera dei social network. Ma a dimostrazione che la democrazia 2.0 non basta a se stessa, Smartcitizen approda allo spazio concreto dell’incontro pubblico e sono così tanti quelli che hanno qualcosa da dire, che l’iniziativa prosegue domani nello Smartparty, alle 19 nel centro Abusuan, a Bari vecchia.
L’intenzione di chi ha dato vita a Smartcitizen è di elaborare e fornire progetti utili alla Smart city, condizione alla quale aspira anche la città di Bari, partecipando al bando europeo per i relativi finanziamenti. Pur senza grandi chance nella competizione, bisogna dirselo. Ma questa è una di quelle situazioni in cui davvero l’importante è partecipare, perché significa darsi comunque un orizzonte un po’ meno angusto e almeno desiderare di essere una «città intelligente». Si può tradurre così il termine Smart city, che fa riferimento ad un modello messo a punto nella Carta di Southampton, nel 2006. L’intelligenza di cui si parla è una intelligenza ibrida, al tempo stesso artificiale e naturale. Due sono i pilastri della Smart city: sviluppo delle tecnologie della informazione e delle comunicazione (Itc), da una parte, investimento sulle risorse umane e la creatività, dall’altra.
Ma il fatto che da Southampton ad oggi ci siamo stati grandi investimenti nelle reti Itc, mentre sono scarsissimi quelli nelle risorse umane, ha portato più di uno studioso a ragionare sui limiti del fenomeno. Il sociologo Robert Hollands, dell’università di Newcastle, in un saggio intitolato «Will the real Smart City please stand up? », sostiene che la vaghezza del concetto potrebbe essere una scelta intenzionale, una genericità artificiosa utile a includere ogni aspetto dello sviluppo urbano, con il crescente dominio delle attività di «neo-liberalizing space», cioè di privatizzazione dello spazio pubblico già denunciato da Jamie Peck e Adam Tickell.
D’altra parte, altri studiosi hanno riconosciuto, dietro lo schermo rassicurante e «felice» della Smart city, l’imporsi della città imprenditoriale (vedi il progetto di Saemanguem, la città di fondazione che Samsung inizierà a costruire dal 2021) , la prospettiva del marketing urbano e la tendenza a considerare solo marginalmente i residenti «ordinari».
E sono proprio dei cittadini ordinari, i «citizen» che oggi in Fiera ci provano a lanciare idee o a richiamare esempi di sostenibilità nel campo della scuola, della salute, della mobilità, dell’alimentazione, dell’edilizia e dell’ambiente. In qualche modo – e non sappiamo quanto consapevolmente – fanno eco alla sociologa americana Saskia Sassen per la quale è necessario «urbanizzare le tecnologie», cioè renderle effettivamente utili ai nuovi bisogni sociali.
Il modello della città intelligente prevede che le azioni istituzionali, pubbliche e private, debbano passare attraverso una ampia partecipazione dei cittadini. E su questo fronte in Italia, non solo a Bari, siamo molto indietro. Quando non sono tenute «segrete», le iniziative che trasformano la città, per bene che ci vada sono oggetto di quella partecipazione simbolica e inefficiente che Sherry Arnstein definisce «Tokenism». Vale a dire «partecipazione di facciata».
Vedremo come l’iniziativa autonoma degli smartcitizen saprà incontrare (o meglio, quale accoglienza avrà) l’attività istituzionale del Comune che nel concorso europeo punta sul Paes (Piano di azione per l’energia sostenibile ) approvato dal consiglio comunale il 27 ottobre 2011. L’ambizioso obiettivo del Piano è di ridurre le emissioni di anidride carbonica almeno del 35% entro il 2020, attuando 78 azioni, che vanno dalla mobilità all’educazione, dall’edilizia alle infrastrutture.
Anche il progetto strategico di Bari dunque conferma la mutazione che il concetto di Smart city ha subito in questi ultimi anni, fino a riempire di sé le indicazioni contenute nella Carta di Lipsia sulle città europee sostenibili, che è stata sottoscritta nel 2007, cioè solo un anno dopo Southampton. Al primo punto, è il caso di sottolinearlo, la Carta di Lipsia stabilisce che «si deve intensificare l’interazione tra architettura, pianificazione infrastrutturale e urbanistica se si vogliono creare spazi attrattivi e orientati verso i fruitori. (…). La strategia per mettere insieme occupazione, tenore di vita, istruzione, funzioni commerciali e ricreative nei quartieri urbani ha dimostrato di essere particolarmente vincente e sostenibile».
NICOLA SIGNORILE