Il “bene” della collettività.

Henri Matisse, La danza, 1910
Henri Matisse, La danza, 1910

La crisi che ormai da qualche anno attanaglia l’Italia e l’intera economia globale ci ha detto che una certa stagione del capitalismo, quello utopico-individualistico, fatto della cancellazione delle regole in nome di una sedicente economia liberista, è giunta ormai al capolinea, ha esaurito la sua capacità generativa ed innovativa. Per anni ci hanno fatto credere che il “mercato”, con la sua capacità autoregolativa, avrebbe risolto ogni problema della vita urbana. La storia contemporanea ci ha dimostrato l’infondatezza di questa idea, i meccanismi autoregolativi del mercato sono imperfetti, non esiste la possibilità di internalizzare completamente le esternalità ambientali (si pensi alle tragiche esternalità prodotte dalla produzione dell’acciaio all’Ilva di Taranto, solo per fare un esempio attuale noto a tutti), dunque, il capitalismo deve necessariamente evolvere in una forma diversa dall’attuale; è evidente la necessità di un ritorno all’economia dell’etica e della reciprocità.

D’altra parte quella di cui ci siamo nutriti per anni è stata solo una deriva interessata della dottrina economica enunciata da Adam Smith il quale, al contrario, sottolineava l’importanza di leggi che garantissero l’esistenza della società: «Nella corsa alla ricchezza, agli onori e all’ascesa sociale, ognuno può correre con tutte le proprie forze, […] per superare tutti gli altri concorrenti. Ma se si facesse strada a gomitate o spingesse per terra uno dei suoi avversari, l’indulgenza degli spettatori avrebbe termine del tutto. […] la società non può sussistere tra coloro che sono sempre pronti a danneggiarsi e a farsi torto l’un l’altro» affermava in Teoria dei sentimenti morali del 1759.

Sulla base di questi assunti teorici, volutamente interpretati in maniera non conforme da una classe politica troppo spesso invischiata in conflitti di interesse multipli, sono spesso stati sottaciuti volgari saccheggiamenti del maestoso territorio italico e la “pioggia di cemento e asfalto […] ha dilatato senza limiti le città, le ha rese deformi. Ha aggravato la vita dei cittadini distruggendo l’ambiente e il paesaggio” come dice Paolo Berdini su Il Fatto Quotidiano del 17 dicembre 2011. Ma parallelamente alla distruzione del paesaggio, altrettanto grave, è stato il colpo inferto alla città intesa come luogo della convivenza pubblica e del pluralismo. L’assenza di regole ha infatti fornito linfa vitale per la crescita di odi, razzismi e fenomeni di esclusione e marginalizzazione; le sempre più diffuse recinzioni dei nostri condomini, il demagogico e folcloristico ricorso alle ronde per garantire la sicurezza ne sono la dimostrazione.

Con buona pace di uno dei grandi maestri dell’architettura contemporanea, Richard Rogers, il quale affermava che “non si può pensare un’architettura senza pensare alla gente”, molto frequentemente la classe politica, avendo perso gran parte della sua possibilità di spesa, ha demandato ai privati il potere decisionale, di controllo e regolamentazione in cambio dei capitali necessari alla realizzazione degli interventi stessi, accettando, così, che gli interessi della collettività fossero barattati con quelli dei singoli. Questo ha contribuito a confondere il limite – caposaldo del liberalismo – tra bene privato (per il quale vale il principio di esclusività, “ciò che è tuo non è mio e viceversa”) e bene pubblico (per il quale il principio di esclusività non è valido), spingendo i più “intraprendenti” a speculazioni finanziarie di corto respiro, a perseguire il vantaggio privato a discapito dell’interesse collettivo e del valore sociale. E anche l’attuale governo non sembra intenzionato a cambiar rotta, anzi, con il Decreto Legge 18 ottobre 2012 n. 179 “Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese”, nella sezione X, all’art. 33 ha introdotto, al fine di incentivare la realizzazione di nuove infrastrutture, una norma in base alla quale  se “è accertata la non sostenibilità del piano economico finanziario, è riconosciuto al soggetto titolare del contratto di partenariato pubblico privato (…) un credito di imposta a valere sull’IRES e sull’IRAP”; in altre parole il rischio d’impresa viene trasferito dall’imprenditore al contribuente (in altre parole: se l’impresa va bene gli utili sono dell’imprenditore, se, malauguratamente, andasse male, lo Stato, e quindi i cittadini, contribuirebbero a contenere le perdite).

Appare evidente la necessità di ripensare l’intero sistema, di riportare l’interesse della collettività al centro del programma politico internazionale ma anche locale. In un simile orientamento la città deve diventare l’equivalente di quello che la famiglia rappresenta per la società, il primo e più elementare componente del sistema complesso che è la società globale.

Chi scrive ritiene altresì che gli interventi per la città e sulla città debbano essere tutti improntati a criteri di sostenibilità; l’edilizia, le energie rinnovabili, lo sviluppo in generale devono essere promossi nel rispetto delle regole dell’ambiente e del paesaggio perchè “l’architettura diventa generosa e significante per gli esseri umani solo se è un’estensione gentile e delicata dell’ordine naturale” come sostiene Giancarlo De Carlo.

Nonostante l’abuso della terminologia, infatti, la diffusione di soluzioni veramente sostenibili è ancora pressoché nulla. E, si badi, quando si parla di sostenibilità non ci si riferisce solo a quella ambientale ma anche a quella economica. Quanti progetti sono rimasti nei cassetti per la mancanza dei fondi necessari alla loro realizzazione? E, peggio ancora, quante opere incompiute costellano, ammorbandolo, il nostro territorio?

In sintesi, l’arresto dell’erosione del paesaggio e la sua valorizzazione, la promozione di una mobilità alternativa, la chiusura del ciclo dei rifiuti, la minimizzazione dei consumi energetici e la massimizzazione dell’efficienza degli organismi che consumano tale energia, la produzione di energie da fonti rinnovabili e la riduzione degli sprechi devono essere le linee guida per una nuova fase della nostra storia, quella del “more with less”, quella della crescita con riduzione dei consumi.

PASQUALE PULITO

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